Pochi giorni dopo lasciai la casa di Bobby indossando alcuni suoi vestiti che mi andavano più o meno bene e portando una piccola borsa con i soldi. Avevo preso anche uno dei suoi portatili, avendo dato il mio in pegno un po’ di tempo prima. Giunto in mezzo alla strada, mi voltai per guardare la proprietà, chiedendomi per quanto tempo una casa potesse andare avanti senza che nessuno ci vivesse. Settimane, sicuramente. E probabilmente molto più a lungo, almeno fino a quando le bollette venivano pagate direttamente e qualcosa non scoppiava o bruciava appiccando un incendio. Mi chiesi quante stanze e abitazioni in tutto il paese fossero così — persone scomparse e macchine ancora in funzione senza nessuno che le controlli.
Da quel momento mi fermai solo in posti simili. Di tanto in tanto attingevo al gruzzolo nascosto da Bobby per fermarmi in un posto che mi ricordasse che una volta avevo avuto una vita, in uno di quegli alberghi nel centro di qualche grande città appartenenti a una catena, dove alla mattina dovevi telefonare alla reception per farti ricordare in che stato ti trovavi. Altrimenti prendevo quel che capitava. Motel rattoppati con assi di legno proprio fuori i confini delle città, o, nelle zone commerciali, uffici dove i vetri erano diventati grigi; insomma, qualsiasi posto dimenticato e trascurato che avesse il cartello con la scritta «Vietato l’accesso», perché normalmente quelle parole erano l’unico deterrente del luogo, a parte la paura di imbattersi in uno di quei tipi che avrebbero potuto cercare di ricorrere alla violenza per difendere la loro dimora temporanea. Fortunatamente ero anch’io uno di loro, quindi quell’idea non mi preoccupava troppo. Ci furono alcuni scontri, ma le persone che non hanno nulla si intimoriscono presto, ammesso che tu sappia tenere i nervi saldi e continuare a fingere di essere in qualche modo diverso. È sorprendente quanto spazio abbandonato ci sia.
Anche John Zandt era sopravvissuto a The Halls. Una notte mi aveva telefonato e ci eravamo recati entrambi a Yakima. La nostra amica Nina fece un rapporto interno su ciò che avevamo trovato e mise in all’erta la sezione di Yakima, ma l’iniziativa sembrò morire non appena lasciata la sua scrivania. Fu in quel momento che ci rendemmo conto di essere da soli in un territorio selvaggio, e che la cospirazione che avevamo scoperto aveva tentacoli più lunghi di quanto avessimo pensato.
Dopo quell’episodio persi l’entusiasmo. La mia carriera, se così si può dire, progredì sempre più lentamente fino a che non finii a lavare i piatti a Relent. Avevo un telefono cellulare registrato sotto falso nome. Avevo il portatile di un uomo morto e una scorta di denaro sporco che si stava esaurendo. Le costole mi facevano ancora male per la coltellata rifilatami da uno spacciatore.
I miei genitori sarebbero stati fieri di me.
Alla fine lasciai il ristorante abbandonato e mi incamminai su quella che era considerata la strada principale di Relent. Le promesse del menu mi avevano fatto venire fame e tutto quello che avevo in tasca erano dei bastoncini di manzo teriyaki dell’anteguerra che non mi ricordavo nemmeno di avere comprato. Trovai un bar chiamato Cambridge, gestito da un’affabile coppia di mezza età. Ma a ogni buon conto il menu era meno allettante di quello offerto dal ristorante fantasma, e così finii per concentrarmi sullo scotch e su qualche birra locale che sembrava essere stata estratta dai muri di vecchi edifici, ma che non sembrava poi così male dopo il terzo o il quarto bicchiere. Ero sempre risoluto ad andarmene, ma fuori cominciò a piovere, un acquazzone che sbatteva contro i vetri della facciata del bar come se qualcuno stesse gettando manciate di ghiaia. Così rimasi seduto, accasciato su un sedile a mangiare olive a un ritmo lento ma costante fino a quando non cominciai a sentire acidità di stomaco e le dita mi erano diventate leggermente verdi.
Verso le nove ero già ubriaco fradicio e un’ora dopo non c’era stato alcun miglioramento. Una giovane donna dai capelli ricci era seduta su un palchetto e cantava con grande concentrazione canzoni di cui non riuscivo a seguire il significato. Mi parve di capire che il mondo le aveva fatto del male ed entro certi limiti mi sentivo solidale con lei, ma la sua voce mi faceva venire mal di testa. Era giunto il momento di andare da qualche altra parte, ma non c’era nessun posto in particolare e fuori pioveva ancora. Ogni tanto qualcuno entrava nel bar con l’aria di chi fosse appena uscito completamente vestito dall’oceano.
Dopo un po’ una di queste persone catturò il mio sguardo. Era un uomo alto e magro e andò a sedersi da solo a un tavolo sul fondo. Mi ritrovai a tenere d’occhio l’immagine del suo tavolo riflessa nello specchio dietro il bar. L’illuminazione del Cambridge era attenuata fino quasi all’oscurità e non riuscii a vedere bene il volto del tizio, ma un formicolio alla testa mi diceva che stava guardando nella mia direzione più spesso di quanto potesse dipendere dal caso. Mi alzai e feci una puntata non necessaria alla toilette, ma quando passai vicino a quell’estremità della stanza la testa dell’uomo era girata, apparentemente per guardare fuori nella notte.
Al cesso feci scorrere l’acqua fino a che non fu fredda e mi sciacquai il viso. Sapevo che qualcosa non andava, ma non ero certo sul da farsi. Poteva darsi che quel tizio stesse semplicemente osservando un forestiero, ma avevo la precisa sensazione che fosse più di quello. C’era una finestra in alto sul lato della stanza, ma nulla su cui salire eccetto un lavandino che non dava l’impressione di poter reggere il peso, e c’erano poche speranze che le mie spalle ci sarebbero passate.
Decisi che lo avrei affrontato. Se doveva accadere qualcosa, allora era meglio che accadesse in un luogo pubblico.
Quando uscii dal bagno il tavolo era vuoto.
Maledicendomi per le mie paranoie, tornai al bar e presi una sorsata da una birra che stava diventando calda. La cantante era stata raggiunta da un’amica i cui capelli erano ancora peggio dei suoi. Le loro voci all’unisono mi facevano tremare le vene delle gambe. Feci un cenno al barman e il proprietario mi portò un conto che mi parve estremamente contenuto. Feci quattro chiacchiere con lui per qualche minuto e lasciai una bella mancia. Mio padre mi aveva educato bene.
Quando uscii faceva più freddo di quanto mi aspettassi. Fui tentato di voltarmi immediatamente indietro e vedere se fossero disposti ad adottarmi o a farmi dormire al bar, ma una volta che una porta si chiude alle mie spalle non ho mai l’impressione di poter tornare indietro. Mi incamminai lungo la strada, mantenendomi vicino alle facciate dei negozi, cercando di evitare la pioggia. La strada era deserta. Avrei potuto tornare alla macchina a occhi chiusi senza mettere in pericolo nessuno eccetto me stesso.
Mi ci volle un minuto o due per rendermi conto che una sensazione lungo la schiena stava cercando di dirmi qualcosa.
Mi fermai e mi voltai. Non era facile guardare in fondo alla strada, ma riuscii a scorgere qualcuno fermo sulla soglia circa a metà strada verso il bar. Non riuscivo ancora a distinguere i suoi lineamenti e il tizio non si mosse, ma nessuno se ne sarebbe andato in giro in una notte come quella solo per contemplare il panorama.
«Posso aiutarla?»
Non ci fu risposta. Infilai una mano nel cappotto e naturalmente mi accorsi di aver lasciato la pistola in macchina. Chi può aver bisogno di una pistola a Relent, Idaho?
«Chi ti manda?»
L’uomo uscì allo scoperto e si fermò sul selciato. Disse anche qualcosa, ma la pioggia inghiottì le sue parole.
Ero stanco, ubriaco e spaventato. Ogni cosa mi diceva di voltarmi e svignarmela, ma non lo feci. Se mi avevano trovato qui, mi avrebbero trovato ovunque. Ecco cosa era diventata la mia vita ormai. Era qualcosa che prima o poi, in un posto o in un altro, doveva succedere. Improvvisamente tutto ciò che non avevo e che non conoscevo era di fronte a me e io mi sentii confuso e gelato dentro.
Cominciai a correre verso di lui.
L’uomo arretrò precipitosamente di qualche passo, ma non abbastanza velocemente. Gli fui addosso prima che si rendesse conto di cosa stava succedendo e cominciai a colpirlo. Sapevo che mi sarei dovuto fermare, che poteva sapere cose che avrei dovuto conoscere, ma me ne infischiai. Usai entrambe le mani e la testa e cademmo entrambi in mezzo alla strada. Lo allontanai per alzarmi, gli diedi un calcio e poi mi piegai per afferrargli la testa, sollevarla e colpirla in su e in giù fino a che non fosse tutto finito. Fui vagamente consapevole di un rumore alle mie spalle, ma non lo misi in rapporto con quanto stava accadendo fino a quando non cominciai a essere tirato all’indietro, e solo allora capii quanto fossi stato stupido a pensare che avessero mandato qualcuno da solo. L’unica cosa di cui potevo ancora stupirmi era che uno di loro non mi sparasse semplicemente e la facesse finita.