Non sapevamo dove si trovasse John. Quella notte aveva zoppicato per gran parte del percorso assieme a Nina e Patrice, senza aprire bocca. Credo che le abbia aiutate, coprendo loro le spalle. Una sorta di penitenza o qualcosa del genere. Ma quando erano arrivati in prossimità delle abitazioni, era scomparso. Nina lo aveva chiamato per dieci minuti, senza ricevere risposta.
Il problema di quell’uomo, come disse Nina più tardi, è proprio questo: non risponderà mai alle tue chiamate.
Non le dissi quello che l’uomo con gli occhiali rotondi mi aveva raccontato su John e su ciò che aveva fatto. Probabilmente era la verità, ma non cambiava granché le cose. Ritenevo altrettanto probabile che Dravecky avrebbe presto ricevuto un’altra visita da parte sua. Resto dell’idea che John non avrebbe mai dovuto uccidere Ferillo. Facendolo, aveva superato un limite e non sarebbe mai ritornato dalla nostra parte.
Il resto del viaggio richiese circa quaranta minuti. Per la maggior parte del tempo Nina tenne i piedi sul cruscotto, intenta a guardare il mare. Eravamo appena usciti da Nehalem quando il suo telefono squillò. Guardò lo schermo e prese la chiamata.
«Era Doug,» disse una volta terminata la conversazione.
«E?»
«Non è morto.»
«Chi?»
«Nessuno dei due. L’eroico Charles Monroe, a quanto dicono, sta facendo passi da gigante. Mi ero proprio sbagliata nel giudicare quell’uomo.»
«No, affatto,» dissi. «Semplicemente per lui non era ancora arrivato il momento di uscire definitivamente di scena.»
In ogni caso, questa era una bella notizia. Tra Monroe e Doug le cose potevano essere sistemate, più o meno. Nina si era incazzata a morte nello scoprire che Doug aveva tramato con Zandt alle sue spalle, ma quello era una sciocchezza se paragonato ai vantaggi che la sua collaborazione ci aveva fruttato. Eravamo già stati cancellati dagli eventi verificatisi nella foresta a nord di Sheffer. Connelly era riuscito a sistemare tutto prima che qualcun altro si immischiasse della faccenda. Agli occhi della legge noi avevamo lasciato la città non appena la dottoressa ebbe curato la mia spalla. Nella foresta si recarono solo Connelly e il suo vice. Uno dei tizi dell’elicottero era nipote dello sceriffo, quindi sarebbero stati al gioco. Connelly aveva trattenuto le nostre pistole per eseguire le perizie balistiche sui killer uccisi e su Paul. Una pistola ritrovata nella macchina dei cecchini mandati dagli Uomini di Paglia avrebbe probabilmente collegato l’assassino occhialuto con il ferimento di Charles Monroe. Patrice Anders avrebbe confermato la versione di Connelly. Quella donna aveva la pelle dura. Ebbi la sensazione che lei e lo sceriffo avessero preso un’iniziativa non precisamente ufficiale, di cui solo loro si sarebbero assunti la responsabilità. Mi domando anche come facesse a sapere esattamente dove dirigersi nella foresta. Comunque sia, lasciamo pure a ognuno i suoi segreti.
«Dov’è Paul?»
«In un ospedale di Los Angeles, sotto stretta sorveglianza. I medici si stanno ancora chiedendo come diavolo ha fatto a sopravvivere.»
Me lo sentivo che era ancora vivo e che forse sarebbe sopravvissuto. «Dio si prende cura dei bambini, degli ubriaconi e dei pazzi criminali.»
Nina sorrise. «Credo che ciò che sta veramente guarendo Monroe sia il fatto di sapere che l’uomo che lui ritiene essere il Ragazzo delle Consegne è ridotto a un colabrodo e rinchiuso in un ospedale con guardie armate ovunque. Charles è riuscito a risolvere il suo caso e alla fine i suoi problemi si dissolveranno come neve al sole.»
«Quindi la cosa vale anche per te, no?»
«Vedremo.»
La sua voce era tranquilla. Controllai la strada poi mi girai verso di lei. «Cosa c’è?» domandai. «Cosa c’è che non va?»
Scosse la testa. «In realtà nulla. Doug mi ha appena detto una cosa su una ragazza di nome Jean che ho interrogato la settimana scorsa. Due notti fa è andata a un party in una grande villa su Mulholland Drive. Ora è in ospedale con la mascella rotta e bruciature di sigaretta sul corpo.»
Fissò la strada davanti a noi, con aria stanca e triste. «Perché siamo così?»
Non avevo una risposta.
Arrivammo a Connon Beach poco prima delle cinque. Attraversammo lentamente la città, che era praticamente costituita solo da due o tre file di graziose case estive in legno, una strada principale con un supermercato e qualche pretenzioso negozietto di artigianato. Era buio e continuava a piovere, e c’era la tranquillità tipica del fuori-stagione. Nella parte nord della città trovammo comunque un albergo chiamato «Dunes» che sembrava fare al caso nostro. C’era un’insegna «Camere libere» illuminata, il che era la cosa più importante. A giudicare dalla desolazione del parcheggio l’hotel era praticamente tutto per noi.
Prendemmo due stanze e ci sistemammo.
La mia era al terzo piano: era grande e aveva un camino su un lato. L’intera parete di fondo era in vetro e dava sul mare. Non riuscii a scorgere nulla se non l’oscurità, ma rimasi comunque seduto lì a guardare mentre bevevo una birra. D’impulso, tirai fuori il portatile — quello di Bobby — e infilai il cavo nella presa telefonica a muro. Mi ritrovai a lanciare un browser e a digitare un indirizzo web.
Pochi secondi dopo il sito di Jessica comparve sul mio schermo. Evidentemente il webmaster non si era preoccupato di rimuoverlo. Avrebbe potuto non farlo mai: chi avrebbe mai notato quei megabyte in più su un server sperduto? Si sarebbe aggiunto a tutto il resto, alle memorie effimere, alle parole e alle immagini della rete. Era questa l’immortalità? No. Come aveva detto qualcuno l’immortalità è non morire. Era qualcosa al tempo stesso migliore e peggiore del nulla.
C’era una pagina iniziale con il volto luminóso e sorridente di Jessica. Il link alla pagina della webcam era inattivo. C’era un’altra pagina dove lei aveva descritto i suoi hobby — comporre canzoni, la qual cosa spiegava la presenza della chitarra — e qualche foto. Solo una di queste la ritraeva seminuda, ma non mi soffermai. Erano le altre a essere più eloquenti. Immagini di una ragazza che conduceva la sua vita, che guardava la televisione e leggeva delle riviste. Lì c’era il suo modo d’essere, qualcosa di più del corpo freddo in una cella dell’obitorio di Los Angeles. Non riuscivo ancora a togliermi dalla testa l’idea di avere visto Jessica nella foresta, anche se sapevo che era stata un’allucinazione.
Con qualcuno dei tipici trucchetti da hacker riuscii a entrare nel server. Copiai il contenuto sul mio disco fisso, nel caso in cui il tizio prima o poi si fosse deciso a fare pulizia. Quando ebbi finito mi accorsi che tra i file ce n’era uno di testo. Lo aprii. Conteneva brevi stralci di diario che lei evidentemente aveva deciso di non mettere on line. I federali sicuramente li avevano già scovati e dovevano già avere appurato che non contenevano nulla di utile. L’ultimo brano risaliva a tre giorni prima della sua morte, e parlava di un certo Don, qualcuno a cui lei credeva di piacere e a cui pensava di telefonare un giorno o l’altro.
Chiusi il portatile di Bobby e pensai un po’ a lui, in un angolo segreto della mia mente. È lì dove vanno tutti: nei cimiteri delle nostre menti; sono lì, dietro i nostri occhi, dove non li puoi vedere. Ma ciò che quelle persone a te care hanno fatto, quello che sono state, continua a esistere. Non è un posto isolato, puoi andare a visitarlo di tanto in tanto.
La mattina dopo mi alzai tardi. Aveva smesso di piovere, ma il vento aveva ripreso vigore. Fuori dalla mia finestra ora riuscivo a scorgere tra le scogliere a picco un lungo tratto di spiaggia, sabbia grigia, acqua grigia, cielo grigio.
Poco tempo dopo Nina bussò. «Vuoi fare una passeggiata?»