In mano, — si accorse, — teneva ancora la ghirlanda. Pete la guardò stupito. — Perdinci, che combinazione di colori. Viola, rosso, verde su nastro scarlatto. E puzza. — In effetti, mandava odore quella cosa, anche se Pete non era abbastanza vicino per avvertirlo — e, comunque, non era questo che intendeva dire.
— Già, ma che cos’è? Come può essere capitato…
Pete sogghignò. — Sembra proprio uno di quegli arnesi che gli hawaiani si mettono al collo. Lei, non si chiamano cosi? Ehi!
Aveva colto, sul viso di Charlie, un’espressione d’improvviso sgomento; gli strappò deciso la cosa dalle mani e la buttò in mezzo ai cespugli. — Adesso, ragazzo mio, — disse, — non aggiungere quel maledetto arnese alla tua sfilza di coincidenze. Che differenza fa sapere chi l’ha lasciata cadere in quel punto e perché? Dài, trova la tua palla e spicciamoci. Quei quattro sono già sul green.
Non trovarono la palla.
Così Charlie ne giocò un’altra. La tirò nel mezzo del percorso con un niblick, poi, con un colpo sensazionale effettuato con il brassie, la mandò a tre metri e mezzo dalla bandiera. Fece infine un solo putter per imbucare il par cinque, nonostante la penalità per la palla persa.
Insomma, andò sotto il cento. Ma poi, giù al circolo, mentre si stavano rivestendo, disse: — Senti, Pete, a proposito di quella palla che ho perso alla quattordici… Non è piuttosto strano che…
— Sciocchezze, — borbottò Pete. — Non hai mai perso una palla, prima d’ora? Certe volte credi di aver visto dove sono cadute, e invece sono a cinque, o anche a dieci, metri di distanza. È la prospettiva che inganna.
— Già, ma…
Di nuovo quel «ma». Sembrava dover essere questa l’ultima parola per ogni cosa avvenuta di recente. Accadono cose pazzesche, una dopo l’altra; e si riescono anche a spiegare, se vengono prese in considerazione una per una, separatamente, ma…
— Bevi un sorso, — suggerì Pete, tendendogli una bottiglia.
Charlie obbedì e si senti meglio. Ne bevve anzi parecchi, di sorsi. Poco importava, del resto, dato che Jane, quella sera, sarebbe andata a una festa organizzata in onore della sposa da alcune sue amiche e non si sarebbe potuta accorgere del suo alito.
— Pete, nessun programma per stasera? — chiese Charlie. — Jane è impegnata, ed è una delle mie ultime sere da scapolo…
Pete sogghignò: — Vuoi dire che una sbornia non ci starebbe male? Bene, conta pure su di me. Forse riusciremo a far venire anche un paio di quelli della banda. È sabato, e nessuno di noi deve lavorare, domani.
X
Era senz’altro una buona cosa che nessuno di loro dovesse lavorare la domenica perché ben pochi ne sarebbero stati capaci. Fu una serata per soli uomini perfettamente riuscita. Una bevuta da Tony e poi un po’ di bowling; fino a quando il direttore del locale non cominciò a prendersela con certa gente che tirava le bocce in modo tale da avviarle giù per la corsia, farle saltare la scanalatura e colpire i birilli della corsia accanto.
Allora se ne erano andati…
La mattina dopo Charlie cercò di farsi venire in mente tutti i posti dove erano stati e tutte le cose che avevano fatto; ben contento, — finì col concludere, — di non riuscirci. Aveva però la vaga impressione di aver cercato di attaccar briga con un chitarrista hawaiano che portava una lei, accusandolo, sbronzo com’era, di avergli rubato la sua palla da golf. Gli altri l’avevano trascinato via prima che arrivassero i poliziotti.
Verso l’una avevano mangiato da qualche parte: Charlie si era ostinato a cercare una trattoria in cui servissero l’anitra, e ben quattro ne avevano passate prima di trovarla. Voleva forse, mangiando l’anitra, rivendicare la palla da golf.
Tutto sommato, un’assurda baldoria ben riuscita; che giustificava senza alcun dubbio i blandi postumi del giorno dopo.
In fondo ci si sposa una volta sola; o per lo meno si sposa una volta sola un uomo che abbia una ragazza come Jane Pemberton innamorata di lui.
Non accadde niente, quella domenica, che non rientrasse nella norma. Charlie vide Jane e cenò di nuovo dai Pemberton; e ogni volta che guardava o toccava Jane provava in qualche modo la sensazione di un pilota inesperto al suo primo giro della morte su di un aereo veloce. Ma questo rientrava del tutto nella norma: il povero ragazzo era innamorato.
XI
Ma lunedì…
Lunedì fu il giorno in cui tutto andò a carte quarantotto. Dopo le del lunedì pomeriggio Charlie capì che il caso era disperato.
Alla mattina prese accordi con il pastore che doveva celebrare il rito e al pomeriggio fece un mucchio di acquisti dell’ultimo minuto per il suo guardaroba personale, scoprendo che gli ci voleva più tempo di quanto non avesse calcolato.
Alle cinque e mezzo incominciò a non essere più tanto sicuro di riuscire a passare dal gioielliere, dove aveva lasciato l’anello nuziale, scelto e pagato in anticipo, perché vi fossero incise le iniziali.
Alle cinque e mezzo Charlie si trovava ancora dalla parte opposta della città, in attesa che gli facessero delle modifiche ad un vestito. Telefonò a Pete Johnson dalla sartoria:
— Di’, Pete, puoi farmi una commissione?
— Certo, Charlie. Di che si tratta?
— Vorrei ritirare l’anello prima che il negozio chiuda, alle sei; così non dovrò venire in centro, domani. Scorwald e Benning, proprio nel tuo stesso isolato. Me lo andresti a prendere tu? È già pagato. Telefono che te lo consegnino.
— Volentieri. Di’, dove sei? Stasera mangio in centro; che ne diresti di prendere un boccone con me?
— Certo, Pete. Ma senti, forse ce la faccio ad arrivare in tempo dal gioielliere: ti ho chiamato giusto per stare sul sicuro. Ascolta, c’incontriamo là. Trovatici per le sei meno cinque, tanto per essere certo di riuscire a ritirare l’anello; io ci sarò per la stessa ora, sempre che ce la faccia. Altrimenti, aspettami fuori. Non farò più tardi delle sei e un quarto, al massimo.
Charlie riattaccò il ricevitore e trovò che il suo vestito era già pronto. Saldò il conto, uscì dalla sartoria e si mise alla ricerca di un taxi.
Gli ci vollero dieci minuti per trovarne uno; ciononostante, vide che ce l’avrebbe fatta ad arrivare in tempo. Di quella telefonata a Pete, in fin dei conti, non ce ne sarebbe stato proprio bisogno: alla gioielleria sarebbe arrivato comodamente per le cinque e cinquantacinque.
E infatti mancava giusto qualche secondo a quell’ora quando smontò dalla macchina, pagò il tassista e s’incamminò verso l’entrata del negozio.
Fu proprio mentre posava il piede oltre la soglia di Scorwald e Benning che avvertì il caratteristico odore, e, prima di riuscire a capire di che cosa si trattasse, aveva fatto un altro passo in avanti. Dopo, era troppo tardi per metterci riparo.
Niente da fare, ormai. Inconsciamente, per accertare l’identità della sostanza, aveva inspirato profondamente e non aveva bisogno ormai di ripetere la prova: la sostanza era così pura e così forte che i suoi polmoni ne erano già pieni.
Alla sua visione distorta il pavimento pareva lontano un chilometro, eppure gli veniva incontro lentamente — lentamente ed inesorabilmente. Gli sembrò di rimanere sospeso in aria per una buona frazione di tempo. Poi, prima dell’atterraggio, misericordiosamente tutto fu vuoto e nero.
XII
— Etere.
Charlie guardò stranito il dottore in camice bianco. — Ma come diavolo avrei potuto ingollare una dose di etere?
C’era anche Pete, che lo sbirciava al di sopra della spalla del medico. La faccia dell’amico era pallida e contratta. Ancor prima che il dottore si stringesse nelle spalle, Pete stava dicendo: