— Già.
— Dove?
— Fanteria spaziale mobile.
— Cosa… Fanteria? Poveretto, che figura! Mi dispiace per te, davvero.
Mi voltai a guardarlo, indignato. — Ma stai zitto! La Fanteria spaziale mobile è l’arma migliore di tutto l’Esercito… È l’Esercito, praticamente! — gli dissi. — Tutti quanti voialtri siete capaci solo di passarci le gatte da pelare, ma il lavoro vero lo facciamo noi.
Rise. — Sì, te ne accorgerai!
— Se non la pianti, ti spacco il muso!
3
E li tratterà con verga di ferro.
Per l’addestramento venni inviato al campo Arthur Currie, nella zona settentrionale delle Grandi pianure, insieme a un paio di migliaia di altri infelici. E quando dico “campo” dico proprio campo, perché gli unici edifici in muratura servivano a proteggere l’equipaggiamento. Mangiavamo e dormivamo in tenda, facevamo vita all’aperto, se quella si chiama vita, cosa che, a quel tempo, sarei stato certamente incline a negare. Abituato com’ero a un clima caldo, mi sembrava che il Polo Nord fosse appena a qualche chilometro e si avvicinasse sempre più. Forse era cominciata una nuova Era glaciale.
Comunque, il moto riscalda, e i capi facevano in modo che ci scaldassimo.
Il primo giorno, ci svegliarono assai prima dell’alba Avevo faticato ad abituarmi al cambiamento di fuso orario, e provavo la sensazione di essermi appena addormentato. Mi pareva anche impossibile che qualcuno pretendesse che mi buttassi giù dal letto nel cuore della notte Ma facevano sul serio, eccome! Da qualche parte, un altoparlante stava trasmettendo una marcia militare, capace di svegliare anche i morti, e uno scocciatore che era arrivato di corsa urlando: — Tutti fuori! Diii corsa! Scat-tare — tornò indietro di soppiatto, mentre mi giravo dall’altra parte tirandomi le coperte sulle orecchie, rovesciò la mia brandina e mi scaraventò sulla nuda e gelida terra. In quel gesto non c’era nulla di personale, se ne andò senza nemmeno assicurarsi che cadendo non mi fossi fatto male.
Dieci minuti dopo, in pantaloni, maglietta e scarpe, ero in fila con gli altri, sommariamente allineati, per iniziare gli esercizi proprio mentre il sole a est si affacciava timidamente all’orizzonte. Di fronte a noi c’era un tipo dalle spalle larghe e l’aria da carogna, vestito esattamente come noi, salvo che, mentre io sembravo, e mi sentivo, l’opera di un imbalsamatore maldestro, lui, con il mento rasato di fresco, i calzoni dalla piega impeccabile e le scarpe lustre come specchi, si presentava aitante, sveglio, calmo e riposato. Dava addirittura l’impressione di non avere affatto bisogno di dormire, tutt’al più, una revisione ogni tanto e una buona ripassata con l’aspirapolvere quando era necessario.
Berciò: — C’gnia! At-tenti! Sono il sergente Zim, vostro comandante di compagnia. Quando vi rivolgerete a me dovete salutare e dire “signore”. Saluterete e direte “signore” a chiunque porti un bastone da istruttore… — Intanto si batteva sul palmo una canna robusta, che poi fece roteare con destrezza per mostrare che cosa intendeva per bastone da istruttore. Ne avevo notati molti con un aggeggio così, quando eravamo arrivati la sera prima, e avevo subito pensato di procurarmene uno anch’io: conferiva un certo prestigio. Ma ora dovetti cambiare idea. — … poiché non abbiamo abbastanza ufficiali per addestrarvi. Quindi vi addestreremo noi. Chi ha starnutito?
Nessuna risposta.
— Chi ha starnutito?
Una voce rispose: — Io.
— Io, cosa?
— Ho starnutito.
— Ho starnutito, signore!
— Ho starnutito io, signore. Sono raffreddato, signore.
— Ma guarda! — Zim si avvicinò all’uomo che aveva starnutito e gli agitò il bastone sotto il naso. — Come ti chiami?
— Jenkins… signore.
— Jenkins! — Il tono di Zim era disgustato, sprezzante. — Scommetto che una volta o l’altra, solo perché hai il raffreddore, starnutirai durante una ronda notturna, eh?
— Spero di no, signore.
— Anch’io. Ma tu sei raffreddato. Mmm… provvediamo subito. — Puntò il bastone. — La vedi quell’armeria laggiù? — Guardai anch’io e non vidi niente, salvo praterie sconfinate e un edificio che pareva sorgere lungo la linea dell’orizzonte. — Fuori dai ranghi. Fai un giro attorno a quell’armeria. Di-corsa! Bronski! Fallo correre.
— Signorsì, sergente. — Uno degli altri cinque o sei portatori di bastone partì di corsa dietro Jenkins, lo raggiunse dopo pochi passi e con un colpetto di bastone lo incitò ad accelerare il passo. Zim tornò a rivolgersi a noi, che ancora rabbrividivamo sull’attenti. Camminò in su e in giù, ci squadrò da capo a piedi con aria profondamente delusa. Alla fine si fermò, scosse la testa e parlò quasi tra sé (ma aveva una voce tonante): — Proprio a me doveva capitare!
Ci guardò. — Pezzi di somari. Macché somari, peggio! Miserabile mucchio di scimmioni rinsecchiti, pastefrolle, fantocci che non siete altro. In vita mia non ho mai visto un branco così disgustoso di cocchi di mamma… parlo con voi! Tacchi uniti! Punte aperte! Pancia in dentro! Petto in fuori! Testa alta! Sto parlando con voi!
Tirai in dentro la pancia, anche se non ero sicuro che si stesse rivolgendo a me. Continuò così per un bel pezzo. In compenso, ascoltandolo, dimenticai che avevo la pelle d’oca per il freddo, Elencò tutte le nostre manchevolezze, con abbondanza di particolari, senza mai ripetersi ed evitando il ricorso a oscenità o bestemmie. (Seppi poi che le teneva in serbo per le occasioni specialissime, e questa non lo era.) Invece di sentirmi insultato, in qualche modo finii per restare affascinato dalla padronanza di linguaggio del sergente. Chissà che figurone avrebbe fatto durante le nostre discussioni in classe!
Alla fine si calmò e parve sul punto di piangere. — È intollerabile! — concluse, amareggiato. — Devo fare qualcosa, assolutamente. I soldatini di piombo che avevo a sei anni mi davano più soddisfazioni. Ok! C’è qualcuno di voialtri mammalucchi deciso a farmi rimangiare quello che ho detto? C’è un solo uomo in questa mandria informe? Si faccia avanti!
Seguì un breve silenzio, al quale contribuii efficacemente. Non che dubitassi di avere la peggio: ne ero sicuro. Poi si levò una voce, proprio in fondo alla fila. — Credo che ci riuscirò io… signore.
Zim parve rincuorato. — Bene! Fai un passo avanti così potrò vederti. — La recluta obbedì. Era imponente una spanna più alto del sergente Zim, e più largo di spalle. — Come ti chiami, soldato?
— Breckinridge, signore. Peso novantacinque chili e non credo di essere una pastafrolla rinsecchita.
— Hai qualche preferenza a proposito di lotta?
— Signornò, può scegliere la morte che preferisce. Per quanto mi riguarda, non mi formalizzo.
— D’accordo, lotta libera. Comincia quando vuoi. — Zim gettò via il bastone.
La lotta cominciò… ed era già finita. La robusta recluta giaceva a terra, e con la destra si reggeva il polso sinistro Non aprì bocca.
Zim si chinò su di lui. — Rotto qualcosa?
— Ho paura di sì… signore.
— Mi dispiace. Sono stato un po’ precipitoso. Sai dov’è l’infermeria? Non importa… Jones! Accompagna Breckinridge all’infermeria. — Mentre i due stavano per allontanarsi, Zim diede una pacca sulla spalla al giovanottone e gli disse a bassa voce: — Tra un mesetto proveremo di nuovo, eh? Ti mostrerò com’è andata.
Forse doveva essere una conversazione confidenziale ma si trovavano a pochi passi da me, che stavo lentamente congelando.
Poi Zim gridò: — Molto bene. Un uomo, almeno, ce l’abbiamo in questa compagnia. Mi sento già meglio. Ne abbiamo qualche altro, per caso? Credete che almeno due di voi rospi scrofolosi potrebbero farcela a sfidarmi? — Faceva scorrere lo sguardo lungo la fila. — Fegati di lattante, gente senza spina dorsale… Oh! Sì, sì. Fatevi avanti.