Due uomini vicini di posto si fecero avanti insieme; immagino che si fossero accordati sul momento, ma erano lontani da me, e non avevo sentito niente. Zim sorrideva — I nomi, coraggio.
— Heinrich.
— Heinrich che cosa?
— Heinrich, signore. Bitte - Parlò in fretta con l’altra recluta che aggiunse: — Lui non parla molto bene l’inglese standard, signore.
— Meyer, mein Herr - precisò il secondo uomo.
— Non importa, in tanti lo parlano male quando arrivano qui… neanche io lo conoscevo bene. Di’ a Meyer di non preoccuparsi, imparerà. Ma ha capito almeno quello che dobbiamo fare?
— Jawohl, mein Herr - confermò Meyer.
— Certo, signor sergente. Capisce lo standard, solo che non lo parla bene.
— Benissimo. Dove ti sei beccato quelle due cicatrici alla faccia, a Heidelberg?
— Nein… signornò. A Königsberg.
— Fa lo stesso. — Zim, dopo essersi battuto con Breckinridge, aveva raccolto il suo bastone e ora lo faceva roteare. — Ne volete anche voi uno a testa, per caso?
— Non sarebbe sportivo, signore — rispose prontamente Heinrich. — Meglio usare solo le mani, se siete d’accordo.
— Come volete. Anche se forse vi ho fregato. Königsberg, eh? Regole particolari?
— Come potrebbero esserci regole, signor sergente, in una lotta a tre?
— Osservazione intelligente. Bene, allora rimaniamo d’accordo che gli occhi strappati vanno restituiti al termine dell’incontro. E puoi dire al tuo Korpsbruder che sono pronto. Cominciate pure quando volete. — Zim gettò via il bastone. Qualcuno lo raccolse.
— Lei scherza, signor sergente. Noi non strappiamo gli occhi.
— Niente cavamento d’occhi, allora, d’accordo. Vi sbrigate sì o no? Altrimenti tornatevene in fila con gli altri.
Non sono certo di aver visto tutto. Forse qualche particolare mi si è chiarito in seguito, durante le esercitazioni, non so. Ma vi riferirò i fatti come li ricordo: i due aggirarono il nostro comandante di compagnia, uno da una parte e uno dall’altra, tenendosi però a debita distanza. Da questa posizione l’uomo che lotta da solo può scegliere fra quattro mosse fondamentali, traendo vantaggio dalla mobilità e dalla migliore coordinazione di movimenti di cui beneficia rispetto agli altri due. Il sergente Zim affermava infatti (e a ragione) che qualsiasi gruppo è più debole di un uomo solo, a meno che non sia perfettamente addestrato a operare collettivamente. Per esempio, Zim avrebbe potuto disorientarne uno con una finta, balzare sul secondo mettendolo fuori combattimento, magari spezzandogli un ginocchio, per occuparsi poi del primo a suo piacimento.
Invece li lasciò attaccare insieme. Meyer lo aggredì all’improvviso, con l’intenzione di colpirlo al corpo e gettarlo a terra, penso io, mentre Heinrich sarebbe intervenuto dopo, lavorandosi il caduto, magari colpendolo con lo stivale. Così, almeno, si profilava la cosa.
Ed ecco, invece, quello che credo di avere visto. Meyer non portò a segno il suo colpo al corpo. Il sergente Zim si girò di scatto per affrontarlo, allungando intanto un calcio all’indietro che raggiunse Heinrich in pieno ventre… L’istante dopo, Meyer veniva catapultato in aria da un potente allungo di Zim.
Quello che posso assicurarvi è che a pochi istanti dall’inizio dell’incontro c’erano due giovani tedeschi che riposavano tranquilli al suolo, quasi piedi contro piedi, uno a faccia in su e uno a faccia in giù, mentre Zim stava ritto accanto a loro, senza nemmeno ansimare. — Jones — chiamò. — Ah, già, Jones non c’è. Mahmud! Porta un secchio d’acqua, poi rimettili in fila con gli altri. Chi ha preso il mio stuzzicadenti?
Pochi minuti dopo i due erano svegli, bagnati fradici, e allineati con gli altri. Zim ci guardò e s’informò cortesemente: — C’è qualcun altro? O dobbiamo passare alle esercitazioni?
Pensavo che nessun altro si sarebbe fatto avanti, e forse lo pensava anche Zim. Ma dal fondo della fila, a sinistra, dove si allineavano i più bassi di statura, un ragazzo uscì dai ranghi e si fece avanti. Zim lo squadrò dall’alto in basso. — Tu da solo? Non vuoi sceglierti un socio?
— Da solo, signor sergente.
— Come vuoi. Nome.
— Shujumi, signore.
Zim spalancò gli occhi. — Qualche parentela con il colonnello Shujumi?
— Mi onoro di essere suo figlio, signore.
— Senti, senti! Molto bene. Cintura nera?
— Signornò. Non ancora.
— Hai fatto bene a dirmelo. Bene, Shujumi, dobbiamo attenerci alle regole o chiamo direttamente l’ambulanza?
— Come preferisce, signore. Ma penso, se posso esprimere un parere, che attenersi alle regole sia più prudente.
— Non capisco in che senso, ma sono d’accordo con te. — Zim gettò via il bastone, poi i due indietreggiarono, si misero di fronte e s’inchinarono.
Presero a girare in tondo, uno di fronte all’altro e in posizione raccolta, facendo qualche finta con le mani. Somigliavano, nel complesso, a due galli da combattimento.
All’improvviso si toccarono… il piccoletto era a terra e il sergente Zim stava volando al di sopra della sua testa. Ma non atterrò con il tonfo sordo e paralizzante che aveva tramortito Meyer. Rotolò e fu subito in piedi. Lo stesso fece Shujumi. Furono di nuovo l’uno di fronte all’altro. — Banzai! - gridò Zim e sorrise.
— Arigatò - rispose Shujumi, e sorrise di rimando.
Si toccarono ancora, quasi senza fermarsi, e pensai che il sergente si facesse un altro volo. Invece no: scivolò in avanti, ci fu un groviglio di gambe e braccia, e quando l’agitazione cessò, vidi che Zim si stava accostando il piede sinistro di Shujumi all’orecchio destro.
Con la mano libera, Shujumi batté sul terreno. Subito Zim lo lasciò andare. Si fecero un inchino.
— Ancora una volta, signore?
— Mi spiace, no. Abbiamo ancora molto da fare. Un altro giorno. Per il divertimento… e l’onore. Forse avrei dovuto dirti che è stato il tuo onorevole padre a addestrarmi.
— Proprio come avevo immaginato, signore. Al piacere di un altro incontro.
Zim gli batté sulla spalla. — Torna in fila, soldato. C’pagnia, at-tenti!
Poi, per venti minuti, ce la spassammo con una serie di esercizi che mi lasciarono grondante di sudore quanto prima ero illividito dal freddo. Zim conduceva gli esercizi, eseguendoli con noi e impartendo ordini a gran voce. A guardarlo, non aveva una piega fuori posto, e quando terminammo non aveva nemmeno il fiatone. Dopo quel mattino, non guidò più gli esercizi (non lo vedemmo mai più prima di colazione: un graduato beneficia di alcuni vantaggi) ma quel mattino lo fece, e al termine, quando fummo tutti sfiniti, ci condusse al trotto verso le tende, urlando come un matto per tutto il percorso: — Pas-so! Di-corsa! Sbrigatevi, marmotte.
Trottavamo sempre e dappertutto, al campo Arthur Currie. Non ho mai saputo chi fosse questo Currie, ma doveva essere stato un maratoneta.
Breckinridge era già nella tenda che fungeva da mensa, con il polso ingessato. Lo sentii dire: — È una roba da nulla, oggi non ho fatto sul serio con quello. Vedrete la prossima volta… Lo sistemerò io…
Avevo i miei dubbi. Shujumi, forse, ma quel bestione lì… Non era nemmeno in grado di capire quanto era stato surclassato. Zim mi era risultato antipatico fin dal primo istante, ma almeno aveva stile.
La colazione era ottima, i pasti in genere erano di notevole qualità, molto diversi dalle brodaglie che ci rifilavano a scuola. E se uno voleva buttarsi sul piatto e ingozzarsi mangiando con le mani, nessuno aveva da ridire, per fortuna, visto che i pasti erano praticamente l’unico istante in cui ti lasciavano respirare senza sbraitarti dietro.