Il menù della colazione non aveva niente a che fare con quello che ero solito mangiare a casa. Se mamma avesse visto come i civili che ci servivano sbattevano il cibo da tutte le parti sarebbe impallidita e si sarebbe ritirata in camera sua. Il cibo, tuttavia, era caldo e abbondante e la cucina, per quanto semplice, non era male. Mangiai il quadruplo del solito e ingurgitai tazze su tazze di caffè bollente, con zucchero e panna. Del resto avrei divorato una balena senza nemmeno perdere tempo a levarle la pelle.
Jenkins arrivò con il caporale Bronski alle calcagna proprio mentre io attaccavo il secondo piatto. Si fermarono un attimo vicino al tavolo di Zim, che mangiava da solo, poi Jenkins si lasciò cadere su uno sgabello libero accanto al mio. Sembrava che stesse parecchio male, era pallido, esausto, e respirava a fatica: — Ti verso un po’ di caffè — gli dissi.
Scosse la testa.
— Mangia, è meglio — insistetti. — Le uova strapazzate vanno giù come niente.
— Non posso mangiare. Quel delinquente, quel maledetto! — E prese a maledire Zim con voce monotona e incolore. — Gli ho chiesto soltanto di lasciarmi tornare in branda e di saltare la colazione. Bronski non ha voluto, ha detto che dovevo dirlo al comandante di compagnia. Sono andato da lui, gliel’ho chiesto dicendo che mi sentivo male. Dopo avermi toccato la fronte e sentito il polso mi ha detto che non potevo marcare visita fino alle nove. Non mi ha lasciato tornare alla mia tenda. Brutto disgraziato! Ma io una notte l’aspetto di fuori, vedrai.
Gli misi le uova strapazzate nel piatto e gli versai il caffè. Lui cominciò subito a mangiare. Zim si alzò da tavola mentre noi ancora mangiavamo, e si fermò al nostro tavolo.
— Jenkins?
— Eh? Signorsì.
— Alle nove precise marcherai visita e ti farai visitare dal medico.
Jenkins contrasse la mascella. Rispose lentamente: — Non ho bisogno di medicine, signore. Mi passerà.
— Nove precise. È un ordine. — E Zim se ne andò. Jenkins prese a inveire contro il sergente. Alla fine si calmò, ingoiò una forchettata di uova strapazzate e disse a voce più alta: — Non posso fare a meno di chiedermi che specie di madre ha potuto mettere al mondo un uomo simile. Mi piacerebbe proprio vederla, solo per curiosità. Credete che ce l’abbia, una madre?
Era una domanda retorica, ma esigeva una risposta. A capotavola, a diversi sgabelli di distanza da noi, sedeva un caporale istruttore. Aveva finito di mangiare e mentre fumava giocherellava con uno stuzzicadenti. Evidentemente aveva sentito. — Jenkins…
— Eh? Signore?
— Sei così poco informato sui sergenti?
— Ecco… sto imparando.
— Non hanno madri. Chiedilo a qualsiasi soldato semplice che abbia terminato il corso. — Soffiò il fumo verso di noi. — Si riproducono per cariocinesi, come tutti i microbi.
4
Allora il Signore disse a Gedeone: “Troppa gente è con te […] Perciò dà quest’ordine a tutto il popolo: chiunque è timoroso e ha paura, si ritiri e torni pure indietro”. Se ne tornarono così ventiduemila e ne rimasero soltanto diecimila. Ma il Signore disse di nuovo a Gedeone: “Vi è ancora troppa gente; falli discendere presso le acque; laggiù li sceglierò” […] Fatto dunque discendere il popolo alle acque, il Signore disse a Gedeone: “Metti da una parte chiunque lambirà l’acqua nella sua mano con la lingua, come i cani, e quanti si piegheranno sulle ginocchia per bere mettili dall’altra”. Il numero di coloro che lambirono l’acqua portando la mano alla bocca fu di trecento uomini; tutti gli altri avevano bevuto piegando le ginocchia […]
E il Signore disse a Gedeone: “Con quei trecento io vi libererò […] tutto il resto del popolo ritorni pure alle sue case”.
Due settimane dopo ci tolsero le brande. Vale a dire che ci toccò la gioia di piegarle, trasportarle a spalla per sei chilometri e sistemarle in un magazzino. Ma ormai la cosa non aveva più molta importanza. La terra nuda ci sembrava molto più calda e soffice, specialmente quando l’adunata squillava nel cuore della notte, cosa che capitava mediamente tre volte alla settimana, e dovevamo saltare in piedi per giocare ai soldati. In genere, dopo uno di quegli assurdi esercizi, riuscivo a addormentarmi di colpo come un sasso. Avevo imparato a dormire ovunque, in qualsiasi momento, seduto, in piedi, perfino marciando. Potevo dormire addirittura durante la rivista, irrigidito sull’attenti, e godermi la fanfara senza svegliarmi. Mi svegliavo sull’istante, però, appena veniva urlato un comando. Al campo Arthur Currie feci una scoperta molto importante: la felicità consiste nel dormire a sufficienza. Tutto qui. Molti ricconi infelici che conosco devono prendere sonniferi per dormire. Quelli della Fanteria spaziale mobile non ne hanno bisogno. Date a un fante una cuccetta e il tempo di infilarcisi dentro, e lui sarà felice come un verme in una mela. Addormentato.
In teoria, ci erano concesse otto ore di riposo per notte, e circa un’ora e mezza di libertà dopo il rancio della sera. In pratica, le ore del riposo erano soggette agli allarmi, al servizio notturno, alle marce, alle cause di forza maggiore e a tutti i capricci di quelli che stavano sopra di noi. Le serate, invece, se non si doveva far parte di qualche squadra o scontare una punizione per infrazioni minori, erano dedicate in genere a lustrare le scarpe, fare il bucato, tagliarsi i capelli (alcuni di noi divennero abbastanza bravi come barbieri, ma una bella pelata a zero era la cosa migliore, e quella sa farvela chiunque), per non parlare delle migliaia di altre inezie che riguardavano l’abbigliamento, la cura della persona e le infinite pretese dei sergenti. Per esempio, avevamo imparato a rispondere “lavato!” all’appello del mattino, intendendo con ciò che ci si era lavati almeno una volta dall’ultima sveglia. Si poteva mentire al riguardo e passarla liscia (a me capitò un paio di volte), ma se c’era qualcuno della compagnia che ricorreva a quel trucco a dispetto dei segni evidenti che testimoniavano di come recentemente non si fosse lavato veniva strofinato con spazzole dure e sapone per pavimenti dai suoi compagni di squadra con un caporale istruttore che sorvegliava e dava utili suggerimenti.
Però, se uno non aveva cose più urgenti da fare, dopo cena poteva scrivere una lettera, oziare, chiacchierare, discutere della miriade di carenze mentali e morali dei sergenti e, quello che soprattutto ci piaceva, parlare delle nostre colleghe. (Avevamo finito per convincerci che non esistessero affatto, che fossero creature mitologiche, partorite da fantasie troppo accese. Un ragazzo della nostra compagnia affermò di avere visto una ragazza, al Comando di reggimento. Fu dichiarato all’unanimità bugiardo e inattendibile.) Oppure si poteva giocare a carte, cosa che non avevo mai fatto, e imparare a proprie spese a non barare.
Disponendo poi di venti minuti proprio tutti per sé, si poteva sempre dormire. E questa era la soluzione che veniva scelta più spesso: eravamo sempre in arretrato di parecchie settimane di sonno.
Forse vi avrò dato l’impressione che la vita al campo fosse resa più dura del necessario. Non è esatto. Era semplicemente resa quanto più dura possibile, e di proposito.
Era ferma convinzione di ogni recluta che si trattasse di pura malvagità, di sadismo calcolato, del diabolico piacere che idioti senza cervello traevano dal procurare sofferenza ad altre persone.
Niente affatto. Tutto era troppo pianificato, troppo intellettualistico, troppo efficiente e organizzato troppo impersonalmente per rappresentare un caso di crudeltà fine a se stessa. Era come la chirurgia, e aveva scopi altrettanto obiettivi e spassionati. Può darsi che qualche istruttore se la sia goduta a bistrattarci, però non mi risulta. So per certo, invece (ora), che gli ufficiali psicoanalisti facevano il possibile per estirpare le erbacce, quando sceglievano gli istruttori. Cercavano di selezionare uomini abili, capaci di rendere le cose il più difficili possibile per una recluta, ma si trattava di un semplice obiettivo. Un bullo è troppo stupido, troppo poco obiettivo per essere efficiente. Inoltre si corre il rischio che possa stancarsi del gioco e battere la fiacca. Con questo, non nego che tra gli istruttori ci siano stati anche dei gradassi, ma in fondo anche molti chirurghi (e non dei peggiori) possono provare un certo gusto a maneggiare il bisturi e a vedere sgorgare il sangue.