Parlo di chirurghi perché, in realtà, di questo si trattava: di chirurgia. Lo scopo immediato dell’addestramento era quello di eliminare, allontanandole dall’arma, le reclute troppo deboli o infantili per diventare veri soldati. E in effetti questo obiettivo veniva raggiunto, e su larga scala. (Per poco non buttarono fuori anche me.) In sole sei settimane la nostra compagnia si ridusse a un semplice squadrone. Alcuni furono allontanati senza infamia e senza lode, e autorizzati, se ci tenevano, a completare \a ferma nei servizi sedentari. Altri vennero espulsi per cattiva condotta, scarso rendimento o ragioni mediche.
Di solito, il motivo dell’allontanamento restava segreto, a meno che la recluta stessa non volesse dirlo. Molti, invece, dichiaravano a voce alta di averne abbastanza, davano le dimissioni e si giocavano per sempre il loro diritto al voto. Altri, specialmente i più anziani, non ce la facevano a sopportare lo sforzo fisico, per quanto ce la mettessero tutta.
Mi ricordo un tale, un certo Carruthers, un tipo simpatico sui trentacinque anni. Lo portarono via in barella, mentre continuava a protestare debolmente che non era giusto, che lui aveva fatto del suo meglio e sarebbe tornato.
Faceva pena, perché era simpatico a tutti e la buona volontà non gli mancava. Così guardammo tutti da un’altra parte, convinti di non rivederlo mai più poiché l’avrebbero certo rimandato tra i civili con il suo bravo certificato medico. Invece lo rividi, dopo molto tempo. Aveva rifiutato il congedo (si può, quando è per ragioni mediche), e faceva il cuoco su un’astronave-tradotta. Si ricordava di me, e volle parlare dei vecchi tempi, orgoglioso di essere stato un allievo del campo Arthur Currie quanto lo era mio padre del suo accento di Harvard. Si riteneva un po’ meglio di quelli che mediamente entravano in Marina. Forse lo era davvero.
Tornando a noi, più importante ancora di eliminare il grasso inutile e risparmiare al governo la spesa per l’addestramento di individui inetti, era la massima sicurezza, umanamente possibile, che nessun fante spaziale entrasse in una capsula di lancio senza essere più che preparato al combattimento, cioè fisicamente adatto, deciso, disciplinato e perfettamente addestrato. Una selezione meno accurata sarebbe stata sleale verso la Federazione, verso i compagni di squadra e soprattutto verso il militare stesso.
È esatto, dunque, affermare che la vita al campo è più crudele del necessario?
Vi risponderò così: la prossima volta che dovrò fare un lancio di combattimento, voglio che ai miei lati ci siano uomini usciti dal campo Arthur Currie, o dal suo equivalente siberiano. Altrimenti, rifiuterò di prendere posto nella capsula.
Ma a quel tempo, naturalmente, pensavo anch’io che gli istruttori fossero un branco di idioti fissati e perversi. Facciamo un piccolo esempio, tanto per intenderci. Eravamo al campo da una settimana, quando ci venne consegnata la tuta marrone da parata, in aggiunta a quella ordinaria che portavamo abitualmente. Le uniformi vere e proprie ci furono fornite in seguito. Riportai la mia tuta in fureria lamentandomi con il sergente furiere. Il suo atteggiamento paterno e il fatto che si occupasse solo di faccende amministrative mi avevano spinto a pensare che si trattasse di un mezzo civile. Non avevo ancora imparato a distinguere i nastrini, e lui ne aveva tanti sul petto, altrimenti non avrei osato nemmeno rivolgergli la parola. — Sergente, questa tuta è troppo larga. Il mio comandante di compagnia dice che mi sta addosso come una tenda.
Guardò l’indumento senza toccarlo. — Davvero?
— Sì. Ne vorrei una della mia misura.
Nemmeno una piega. — Forse sarà meglio che io ti spieghi, figliolo. Nell’Esercito esistono solo due tipi di tute: quelle troppo larghe e quelle troppo strette.
— Ma il mio comandante di compagnia…
— Non ne dubito.
— E che cosa devo fare?
— Ah! È un consiglio che vuoi? Te lo do subito. Qui c’è un ago, e ti darò anche un rocchetto di filo. Le forbici non servono, basta una lametta da barba. Dunque, stringi bene la tuta sui fianchi, ma lasciala abbondante di petto e di spalle. Scoprirai in seguito il perché.
L’unico commento del sergente Zim al mio saggio di alta sartoria fu: — Si può fare di meglio. Due ore di ramazza per punizione, fuori servizio.
E così, prima della rivista seguente, riuscii a fare di meglio.
Le prime sei settimane al campo furono una specie di cura ricostituente, e snervante, con un’infinità di adunate, riviste, esercizi, e ore di marcia. Alla fine, via via che le file si assottigliavano, raggiungemmo lo stadio in cui potevamo percorrere ottanta chilometri in dieci ore, il che rappresenta la media di rendimento di un buon cavallo, nel caso non lo sapeste. Per riposare, invece di fermarci, cambiavamo ritmo: passo lento, passo veloce, trotto. A volte facevamo l’intero percorso, bivaccavamo consumando razioni da campo, dormivamo nei sacchi e tornavamo indietro il giorno seguente.
Un giorno ci mettemmo in marcia per un’esercitazione normale, senza coperte in spalla e razioni. Non ci fermammo per colazione, ma la cosa non mi sorprese. L’esperienza mi aveva insegnato a portarmi sempre dietro zollette di zucchero e gallette abilmente sottratte alla mensa. Ma quando, nel pomeriggio, la marcia continuò portandoci sempre più lontani dal campo, cominciai a meravigliarmi. Però avevo imparato a non fare domande stupide.
Poco prima del buio fu ordinato l’alt. Eravamo tre compagnie, ormai alquanto ridotte di effettivi. Ci schierammo in battaglione, sfilammo inquadrati, senza fanfara, venne montata la guardia, poi arrivò l’ordine: — Rompete le righe! — Cercai immediatamente il caporale istruttore Bronski, leggermente meno intrattabile degli altri suoi pari grado, anche perché sentivo di avere una certa responsabilità. Al momento, mi trovavo a essere anch’io un graduato. I galloni non significavano quasi niente, tutt’al più il privilegio di essere mangiato vivo per tutto quello che io o la mia squadra combinavamo, e potevano svanire d’incanto come erano apparsi. Zim aveva provato a nominare capopattuglia tutti i più anziani della compagnia, e alla fine avevo ereditato io il bracciale con un gallone quando, un paio di giorni prima, il nostro capopattuglia dopo essere svenuto era stato portato all’ospedale.
Azzardai: — Caporale Bronski, quali sono gli ordini? Quando suonerà il rancio?
Mi sorrise. — Ho in tasca un paio di gallette. Vuoi che facciamo a metà?
— Come? Signornò, grazie. — Avevo addosso molto di più di due gallette, io. Ormai mi ero fatto furbo. — Niente rancio?
— Ne so quanto te, ragazzo. Ma non vedo elicotteri in arrivo. Se fossi al tuo posto, radunerei la mia pattuglia e cercherei di organizzarmi. Chissà che uno di voi non riesca a centrare un coniglio selvatico con una pietra.
— Signorsì. Ma… resteremo qui tutta la notte? Non abbiamo coperte con noi.
Inarcò le sopracciglia. — Niente coperte? Perbacco! — Parve pensarci su. — Mmmm… hai mai visto le pecore ammassarsi le une sulle altre durante una tormenta di neve?
— Signornò.
— Be’, provate. Loro non gelano, forse ci riuscirete anche voi. Oppure, se la promiscuità non ti piace, puoi camminare su e giù tutta la notte. Nessuno ti disturberà, purché resti entro i limiti del bivacco. Continua a muoverti e non morirai assiderato. Tutt’al più, domani sarai un po’ stanco. — E sorrise di nuovo.