Salutai e tornai alla mia pattuglia. Mettemmo insieme tutto quello che avevamo da mangiare e lo dividemmo in razioni uguali. Così mi ritrovai con meno provviste di quelle che avevo prima. Qualcuno di quegli idioti era pulito come un angioletto, altri avevano già finito tutto durante la strada. Comunque qualche galletta e un paio di prugne fanno miracoli nel calmare lo stomaco che protesta. Anche il trucchetto delle pecore funzionò. La nostra squadra, tre pattuglie, giocò a fare il gregge. Tutto sommato, non ve lo raccomando come modo di dormire. O resti nello strato esterno gelato da una parte, oppure stai sotto, abbastanza al caldo, ma con tutti gli altri che ti schiacciano e soffocano con i gomiti, i piedi e il tanfo. Per tutta la notte vaghi da una posizione all’altra, in una sorta di moto browniano, mai completamente sveglio, mai completamente addormentato. La notte sembra durare un secolo.
All’alba ci risvegliammo al familiare grido di “In piedi! Scattare!”, incoraggiati dai bastoni degli istruttori che sferzavano qua e là le terga emergenti dal mucchio. Poi attaccammo con gli esercizi ginnici. Mi sentivo un cadavere e non credevo di essere in grado di eseguire anche solo una flessione. Invece ci riuscii, sia pure vedendo le stelle per il male. Venti minuti dopo, quando ci rimettemmo in marcia, mi sentivo semplicemente più vecchio. Il sergente Zim non aveva una grinza e, chissà come, era riuscito perfino a farsi la barba.
Il sole mentre marciavamo ci scaldava le ossa. Zim ci ordinò di cantare: dapprima vecchie canzoni, come Il Reggimento della Somme e della Mosa, Caissons e Il palazzo di Montezuma, poi il nostro inno La polka del fante, che fa affrettare il passo fino a raggiungere il piccolo trotto. Il sergente Zim, stonato come una campana rotta, aveva un vocione tonante. Breckinridge, invece, dotato di un buon orecchio e di un bel timbro, guidava il coro alla faccia delle poderose stecche di Zim. Ci sentivamo piuttosto aitanti e nello stesso tempo coperti di spine.
Ma percorsi i soliti ottanta chilometri, ci sentimmo molto meno su di giri. La notte era stata interminabile, la giornata lo fu ancora di più. Zim ci diede una lavata di testa perché lo schieramento non manifestava un aspetto marziale. Diversi capopattuglia si beccarono una punizione per non essersi fatti la barba nei nove minuti d’intervallo tra il “Rompete le righe!” dopo la marcia e l’“In riga!” per la rivista. Quella sera molte reclute diedero le dimissioni. Anch’io ci pensai, ma rimasi per via di quegli stupidi galloni che fino ad allora nessuno mi aveva ancora tolto.
Quella notte ci fu un “All’armi” di due ore.
Con l’andare del tempo finii per apprezzare il conforto di due o tre dozzine di corpi umani tra i quali adagiarsi. Dodici settimane dopo, infatti, ci scaricarono nudi come vermi in una zona selvaggia delle montagne canadesi, affinché ci facessimo a piedi i nostri bravi settanta e più chilometri di montagna. Li feci, e a ogni passo scagliai una maledizione nuova di zecca contro l’Esercito, con calore e convinzione.
Eppure non ero in condizioni disperate quando risposi all’appello. Ero riuscito a prendere un paio di conigli che si erano dimostrati meno svelti di me, e perciò non ero proprio affamato, e nemmeno completamente nudo: avevo un bello strato di grasso animale spalmato sul corpo per tenermi caldo, mentre con la pelle dei conigli mi ero fatto un paio di calzari. È incredibile poi quello che si può fare con un paio di sassi, quando la necessità lo impone. Credo che i nostri antenati, gli uomini delle caverne, non fossero poi così sprovveduti come siamo soliti pensare.
Anche gli altri ce la fecero, tutti coloro che ancora si ostinavano a provare e a sopportare qualsiasi cosa pur di non dare le dimissioni, tranne due che morirono nel tentativo di farcela. Per ritrovarli tornammo lassù e ci restammo tredici giorni, perlustrando palmo a palmo il territorio con gli elicotteri che ci ronzavano sulla testa per fornirci le istruzioni e quanto c’era di meglio in fatto di riceventi e trasmittenti. Vennero con noi tutti gli istruttori in tuta potenziata per coordinare le operazioni e captare le richieste di aiuto… la Fanteria spaziale mobile non abbandona i propri uomini finché sussiste la più piccola speranza di salvarli.
Infine li trovammo e li seppellimmo con tutti gli onori, al suono di Questa terra è nostra. Ricevettero la qualifica postuma di “soldato di prima classe”, i primi del nostro reggimento ad arrivare così in alto, perché un fante non ha l’obbligo di restare in vita (morire fa parte del suo lavoro), ma ci si preoccupa molto di come muore. Deve morire a testa alta, scattando, nel tentativo disperato di riuscire nella sua missione.
Uno dei due morti era Breckinridge, l’altro un ragazzo australiano che non conoscevo. Non erano i primi a perire in addestramento, e non furono gli ultimi.
5
Tutto questo, però, avvenne dopo che avevamo lasciato il campo Arthur Currie. Nel frattempo erano successe molte cose: addestramento di guerra, soprattutto, esercitazioni, istruzioni, manovre. Ci servivamo di tutto, dalle mani nude alle finte armi nucleari. Non avrei mai pensato che ci fossero tanti modi diversi di combattere. Mani e piedi, tanto per cominciare, e se pensate che quelle non sono armi non avete visto in azione il sergente Zim e il capitano Frankel, il nostro comandante di battaglione, o non vi siete trovati tra le grinfie del piccolo Shujumi, che sorrideva da un orecchio all’altro mentre ci sbatteva qua e là come stracci. Zim non aveva perso tempo a nominare Shujumi istruttore, dando disposizione affinché prendessimo ordini da lui anche se non dovevamo salutarlo e chiamarlo “signore”.
Via via che i nostri ranghi si assottigliavano, Zim smise di occuparsi degli esercizi collettivi, limitandosi a passarci in rivista, e dedicò sempre più tempo all’istruzione individuale, completando l’opera dei caporali. Zim era “morte immediata” con qualsiasi arma, ma gli piacevano soprattutto i coltelli. Si era costruito e calibrato da sé il proprio coltello, disdegnando quelli in dotazione, che pure erano ottimi. Come istruttore individuale era un po’ più malleabile: diventava semplicemente insopportabile invece che decisamente disgustoso. Si mostrava perfino paziente anche se gli venivano rivolte domande stupide.
Una volta, durante una delle pause di due minuti dispensate con il contagocce durante le giornate di istruzione, uno dei ragazzi, un certo Ted Hendrick, chiese: — Sergente, scusi… Lanciare il coltello è un esercizio divertente, ma perché dobbiamo impararlo? A che cosa può servirci?
— Ecco, immagina un po’ di avere solo un coltello, e magari nemmeno quello — rispose Zim. — Che cosa fai? Dici le preghiere e muori? O ti getti a capofitto sull’avversario e cerchi di annientarlo? Figliolo, questo è un gioco vero, non una partita di scacchi che puoi dichiarare persa quando ti accorgi che ormai sei sconfitto.
— Ma è proprio quello che dico io, signore. Immaginiamo che uno sia completamente inerme. O che al massimo abbia uno di questi coltelli. Invece l’avversario è dotato di armi pericolose. Che cosa si può fare? Niente, no? L’altro ti ha già spianato prima ancora di averti guardato in faccia.
Il tono di Zim fu quasi paterno. — Ragazzo, vedo che hai le idee confuse. Non esistono armi pericolose, capisci?