— Johnnie — mormorò — è il tuo primo lancio come graduato.
— Già. — In realtà non ero un graduato, come del resto Gelatina non era un ufficiale.
— Volevo dirti solo una cosa, Johnnie. Porta a casa la pelle. Sai quello che devi fare. Fallo. Fallo e basta. Non cercare di guadagnarti una medaglia.
— Grazie, Padre. Non lo farò.
Aggiunse sottovoce qualcosa, in un linguaggio che non conoscevo, mi batté la mano sulla spalla e tornò di corsa alla sua squadra.
Jelly gridò: — At-tenti! — E tutti scattammo.
— Squa-drone!
— Squa-drone! — fecero eco Migliaccio e Johnson.
— Per squadre, a tribordo e a babordo, prepararsi per il lancio! Via!
— Squadre! Pronti alle capsule! Via!
— Pattuglie! — Dovetti aspettare che le pattuglie Quattro e Cinque s’infilassero nelle capsule e scivolassero giù per il tubo di lancio prima che la mia capsula apparisse lungo il binario del portello e potessi ficcarmici dentro. Mi chiedevo se quei famosi guerrieri dell’antichità avessero provato lo stesso terrore nell’infilarsi dentro il cavallo di Troia, o se fosse un privilegio tutto mio. Gelatina era addetto alla chiusura di ogni capsula. Si premurò personalmente di chiudere la mia. Nel farlo si chinò verso di me e disse: — Testa a posto, Johnnie. Non è niente di più di un’esercitazione.
La calotta si chiuse sopra di me e mi ritrovai solo. Niente di più di un’esercitazione, a sentire lui! Cominciai a tremare come una foglia.
Poi, nella cuffia, sentii Gelatina dal tubo centrale: — Ponte di comando! Rompicollo di Rasczak… pronti per il lancio!
— Diciassette secondi, tenente! — sentii rispondere dall’allegra voce di contralto della comandante dell’astronave, il capitano Deladrier. E ci soffrii a sentirla chiamare Gelatina “tenente”. D’accordo, il nostro tenente era morto e forse Gelatina avrebbe preso il suo posto, ma per ora eravamo ancora i Rompicollo di Rasczak.
La comandante aggiunse: — Buona fortuna, ragazzi.
— Grazie, capitano.
— Tenetevi pronti! Mancano cinque secondi.
Ero tutto legato con le cinghie: vita, fronte, stinchi. Ma tremavo più che mai.
Va meglio, una volta scaricati. Fino a quel momento, si stava nel buio più completo, rigidi come mummie per via dell’accelerazione, riuscendo appena a respirare, sapendo che attorno nella capsula c’è soltanto azoto (anche ammesso che si potesse sollevare il casco, e non si può), sapendo che la capsula è bloccata nel tubo di lancio e che se l’astronave viene colpita prima che ti sparino fuori, non hai nemmeno il tempo di dire amen. Crepi così, senza poterti muovere, senza poter fare niente.
È quell’attesa interminabile nel buio che dà la tremarella: pensi che si siano dimenticati di te… forse la nave è stata colpita ed è rimasta in orbita, senza vita, e tra poco farai la stessa fine anche tu, morirai soffocato, senza poterti muovere… oppure la nave esploderà, e farai in tempo ad arrostire vivo…
Poi la manovra d’arresto dell’astronave ci colpì d’improvviso e io smisi di tremare. Gravità otto, a occhio e croce, forse anche dieci. Quando un’astronave è pilotata da una donna la faccenda non è mai piacevole: uno si ritrova lividi dappertutto. Sì, lo so, come piloti valgono più degli uomini, le loro reazioni sono più rapide e tollerano un maggior numero di gravità. Possono accelerare e decelerare più rapidamente, quindi le probabilità di cavarsela sono maggiori per tutti, per te come per loro. Detto ciò, non è piacevole ricevere in piena spina dorsale un urto pari a dieci volte il proprio peso normale.
Devo ammettere, però, che il capitano Deladrier sapeva il fatto suo. Dopo avere bloccato la Rodger Young, non sprecò un solo istante. Immediatamente la sentii ordinare: — Tubo di lancio centrale… fuoco! — Ci furono due scossoni di rinculo mentre Gelatina e quello che fungeva da sergente di squadrone venivano scaricati. Poi, subito: — Tubi di babordo e tribordo a tiro automatico… fuoco! — E uno dopo l’altro cominciammo a schizzare fuori dai tubi.
Bump, e la tua capsula scatta in avanti di un posto. Bump, e scatta di nuovo, proprio come cartucce che vanno a inserirsi nella canna di una vecchia arma automatica al posto di quelle appena sparate. Ecco, proprio questo eravamo in effetti, salvo che le canne del fucile nel nostro caso erano due tubi di lancio gemelli costruiti dentro lo scafo di un’astronave da trasporto truppe, e ogni cartuccia costituiva una capsula grande abbastanza (ma non un filo di più) per contenere un soldato di fanteria con tutto il suo equipaggiamento da combattimento.
Bump… Ero abituato a sentirmi sbalzare fuori al bump numero tre. Ora, invece, facevo da fanalino di coda: ero l’ultimo di tre pattuglie complete. È un’attesa noiosa, anche se le capsule escono una al secondo. Cercavo di contare i bump. Dodici, tredici, quattordici (con un tonfo un po’ diverso dagli altri: era la capsula vuota dentro cui si sarebbe dovuto trovare Jenkins).
Poi finalmente… clang! È il mio turno, la capsula entra nella camera di scoppio e… buuum! L’esplosione colpisce con una forza tale che, al confronto, la manovra di arresto del pilota diventa una carezza affettuosa. E d’improvviso il nulla. Assolutamente nulla. Niente rumore, niente pressione, niente peso. Si fluttua nell’oscurità, in caduta libera, forse da quattro o cinquemila metri oltre l’atmosfera, precipitando senza peso verso la superficie di un pianeta mai visto. Ma a questo punto non tremo più, è l’attesa che logora. Una volta scaricati, la paura cessa perché, se qualcosa dovesse andare male, tutto avverrebbe con una tale rapidità che ci si ritroverebbe morti senza nemmeno rendersene conto.
Subito sentii la capsula deformarsi e ondeggiare, poi si stabilizzò in modo che tutto il mio peso poggiasse sulla schiena, aumentando rapidamente, fino a raggiungere quello definitivo che avrei avuto in rapporto alla forza di gravità del pianeta (gravità 0,87, ci avevano detto) via via che la capsula raggiungeva la velocità definitiva per i rarefatti strati superiori dell’atmosfera. Un pilota che sia veramente un artista (e il nostro capitano lo era) deve avvicinarsi ed eseguire la manovra di frenata in modo che la velocità di lancio, quando si viene sparati fuori dal tubo, coincida con quella di rotazione del pianeta a una data latitudine. Le pesanti capsule possono così penetrare attraverso i venti deboli degli strati superiori dell’atmosfera senza subire deviazioni sensibili dalla loro posizione. Ovviamente ogni squadrone è ugualmente destinato a disperdersi durante la discesa e a deviare dalla perfetta formazione in cui è stato scaricato. Un cattivo pilota, però, può peggiorare enormemente questo effetto e disperdere i componenti di un gruppo in un’area così vasta da metterli nell’impossibilità di riunirsi per la ritirata e soprattutto di portare a termine la loro missione. Un fante può combattere soltanto se viene recapitato esattamente sulla sua zona d’operazione. In un certo senso, quindi, i piloti sono essenziali al buon esito dell’attacco tanto quanto la fanteria stessa.
La mia capsula penetrò nell’atmosfera con estrema facilità, e io capii subito che il capitano ci aveva sganciati in modo perfetto. La cosa mi rallegrò, non solo perché avremmo toccato terra in formazione compatta, evitando di sprecare tempo prezioso a regolare le distanze, ma anche perché un pilota che sa eseguire con precisione lo sganciamento è altrettanto abile nel riprenderti a bordo.
L’involucro esterno incendiandosi doveva essersi sfaldato in maniera non uniforme, visto che mi ritrovai a testa in giù. Poi il resto dell’involucro volò via e subito mi raddrizzai. I freni a scossa del secondo involucro entrarono in azione, e cominciò un ballo che si fece sempre più frenetico via via che il secondo involucro si sfaldava. Uno dei fattori che aiutano i membri della fanteria incapsulata a raggiungere l’età della pensione è questo: gli strati che si staccano l’uno dopo l’altro non solo rallentano gradualmente la discesa della capsula, ma riempiono di rottami il cielo sovrastante l’area da attaccare. Da terra, per ogni uomo in caduta, i radar localizzano almeno una dozzina di bersagli, ciascuno dei quali potrebbe essere un uomo, una bomba o qualsiasi altra cosa. Ce n’è a sufficienza per provocare un collasso nervoso a qualsiasi computer balistico, il che succede regolarmente.