Il capitano Frankel stava già sbraitando. — Attendente! Attendente! Attendente!!!… Possibile che debba chiamarti tre volte? Come ti chiami? Un’ora di lavoro straordinario, così imparerai. Trovami i comandanti delle compagnie E, F e G, i miei saluti a tutti, e vorrei vederli stasera prima della rivista. Poi fai un salto alla mia tenda e prendimi un’uniforme da parata pulita, berretto, bandoliera, scarpe, nastrini. Niente medaglie. Lasciami tutto steso sulla sedia. Poi presentati alla visita medica alle sei. Se con quel braccio puoi grattarti, come ti ho visto fare, vuol dire che la spalla è tornata a posto. Hai tredici minuti esatti prima della visita medica. Scattare, soldato!
Ce l’avevo fatta, rintracciando due dei comandanti nella doccia degli istruttori anziani (un’ordinanza può entrare dappertutto) e il terzo alla sua scrivania: gli ordini che si ricevono non sono mai impossibili, sembrano tali perché lo sono quasi. Mentre disponevo in bell’ordine sulla sedia l’uniforme del capitano Frankel, era squillata la chiamata per la visita medica. Senza rialzare la testa Frankel aveva borbottato: — Lascia perdere l’ora di straordinario. Puoi andare. — Così ero arrivato in tenda proprio in tempo per beccarmi dell’altro straordinario per “uniforme, macchie due” e vedere la miserevole conclusione del periodo trascorso da Ted Hendrick sotto le armi.
Perciò, ne avevo di cose su cui riflettere quella sera, mentre non riuscivo a prendere sonno. Che il sergente Zim lavorasse sodo l’avevo sempre saputo, ma immaginavo che si sentisse eternamente tronfio e soddisfatto di quello che faceva. Sembrava così impettito, così sicuro di sé, così in pace con la sua coscienza e con il mondo intero, a vederlo!
L’idea che quell’irriducibile robot potesse capire di aver sbagliato, ed esserne così consapevole da detestarsi e desiderare di scappare via, di nascondere la faccia tra gente sconosciuta, con la scusa che sarebbe stato “meglio per il bene dell’arma”, mi sconvolgeva totalmente in un certo senso, perfino più di quanto mi avesse destabilizzato la fustigazione di Ted.
Sentire poi il capitano Frankel che gli dava ragione, sulla gravità dell’errore, s’intende, e poi gli faceva la paternale e lo strigliava ben bene…
Incredibile! I sergenti non ricevono lavate di testa: i sergenti le fanno! È una legge di natura.
Ma dovevo ammetterlo: le parole che Zim aveva dovuto ascoltare, e ingoiare, erano così umilianti e avvilenti che al confronto la peggiore sfuriata che io avessi ricevuto o sentito fare da un sergente era una canzone romantica. E il capitano non aveva nemmeno alzato la voce.
Quell’incidente era talmente assurdo che non mi venne nemmeno la tentazione di parlarne con gli altri.
E il capitano Frankel? Noi gli ufficiali non li vedevamo spesso. Si facevano vedere alla rivista serale, arrivavano con calma all’ultimo minuto e non facevano nulla che potesse provocare in noi sudori freddi. Una volta alla settimana passavano in rassegna le truppe, facendo in privato commenti con i sergenti, che inevitabilmente causavano dispiaceri a qualcun altro, non a loro. Inoltre ogni settimana decidevano quale compagnia si fosse guadagnata l’onore di sorvegliare l’insegna del reggimento. A parte questo, qualche volta arrivavano all’improvviso per un’ispezione, sempre lindi, immacolati e distanti, accompagnati da un leggero odore di acqua di colonia, per poi sparire di nuovo.
Certo, uno o più ufficiali ci accompagnavano sempre durante le marce di addestramento, e due volte il capitano Frankel aveva fatto sfoggio delle sue doti atletiche. Ma gli ufficiali non lavoravano, perlomeno non svolgevano compiti materiali e potevano vivere senza preoccupazioni visto che i sergenti erano sotto di loro, non sopra. E invece si scopriva all’improvviso che il capitano Frankel lavorava così sodo da saltare i pasti, ed era talmente impegnato nelle varie mansioni burocratiche da avvertire la mancanza di moto e ridursi a sprecare le serate di libertà per “fare una bella sudata”.
Quanto alle preoccupazioni, Frankel mi era sembrato anche più mortificato di Zim per la disavventura di Hendrick. E sì che non aveva mai visto Hendrick in faccia, prima: aveva perfino dovuto chiedergli come si chiamava.
Nel complesso, ero tormentato dalla sensazione di essermi completamente sbagliato sul mondo che mi circondava, come se tutto fosse totalmente diverso da come si presentava. Era un po’ come scoprire che la propria madre è una sconosciuta, un’estranea che si nasconde dietro una maschera. Di una cosa, però, ero sicuro: non volevo affatto scoprire che cosa fosse in realtà l’ambiente militare. Se era talmente duro che perfino gli dei, cioè sergenti e ufficiali, potevano sentirsi infelici, era certamente troppo duro per Johnnie! Come si fa a non commettere errori in un ambiente impenetrabile e incomprensibile come quello? Non volevo finire impiccato, non volevo rischiare una fustigazione, nemmeno sotto il controllo di un medico convocato affinché il malcapitato non subisse lesioni permanenti. Nessuno, nella mia famiglia, era mai stato fustigato (tralasciando, ovviamente, qualche sculacciata a scuola, che non era affatto la stessa cosa). Nella nostra famiglia criminali non ce n’erano né dal lato materno né da quello paterno. Eravamo una famiglia orgogliosa. L’unica cosa che ci mancava era il diritto di voto, ma papà lo considerava non un onore, ma una perdita di tempo. Se io fossi stato frustato… be’, probabilmente gli sarebbe venuto un colpo.
Eppure Hendrick non aveva fatto niente che io non avessi pensato di fare almeno un migliaio di volte. Perché non l’avevo fatto? Per paura, suppongo. Sapevo bene che gli istruttori, tutti, senza eccezione, potevano farmi passare ogni velleità, così avevo tenuto il becco chiuso e incassato pazientemente. Tutta vigliaccheria, caro Johnnie! Perlomeno, Hendrick aveva dimostrato di avere fegato. Io non ne avevo, e un uomo che non ha fegato, nell’Esercito stona.
Senza contare, poi, che il capitano Frankel non aveva nemmeno imputato il fatto al temperamento di Ted. Anche se non mi fossi tirato addosso il nove zero otto zero, per mancanza di coraggio, in qualsiasi momento sarei forse potuto incorrere in qualcosa di più grave, magari non per colpa mia, e finire ugualmente legato al palo della vergogna?
Squagliatela, Johnnie, finché sei ancora in tempo!
La lettera di mia madre non faceva che confermare la mia decisione. Avevo potuto indurire il cuore nei confronti dei miei genitori finché si erano opposti alle mie decisioni, ma adesso che si erano addolciti, non me la sentivo più. Adesso che la mamma si era addolcita, perlomeno.
Mi aveva scritto:
… purtroppo devo dirti che tuo padre non permette ancora che in casa si faccia il tuo nome. Però, bambino mio, questo è solo il suo modo di rimpiangerti, dato che lui non può piangere, come me. Devi capire, figlio caro, che tuo padre ti ama più della sua vita, più di quanto ami me, e che tu l’hai ferito profondamente. Dice a tutti che ormai sei un uomo in grado di prendere da solo le decisioni, e che lui è fiero di te. Ma è l’orgoglio che lo fa parlare così, l’amaro dolore di un uomo forte ferito nel profondo dell’animo dall’essere che ama di più. Devi capire, Juanito, che non parla di te in casa e non ti scrive perché non può, perlomeno non ancora. Lo farà quando il suo dolore sarà diventato più tollerabile. Io me ne accorgerò subito, e intercederò per te… e saremo di nuovo riuniti.
Quanto a me, figliolo, che cosa potrebbe fare di tanto grave un figlio da perdere l’affetto della sua mamma? Tu puoi farmi soffrire, ma non per questo ti amerò meno. Dovunque tu sia, qualunque sia la tua scelta, sarai sempre il mio bambino, quello che si sbucciava le ginocchia e correva da me per farsi consolare. Ora non posso più tenerti in braccio, ma posso sempre consolarti, se ne hai bisogno. E i ragazzi hanno sempre bisogno della loro mamma, anche quando diventano uomini, vero, tesoro? Spero che tu mi scriva per dirmi che è così.