Naturalmente, l’uso corretto di tutti i dispositivi richiede un po’ di pratica, e se ne fa tanta finché azionare il circuito voluto diventa meccanico come lavarsi i denti. Ma per indossare la tuta, per muoversi con addosso la tuta, non c’è quasi bisogno di fare pratica. Poi ci si esercita nel salto perché, se è vero che si spicca il volo con movimento assolutamente naturale, con la tuta si va più in alto, più in fretta e più lontano, e si resta in aria più a lungo. Basterebbe quest’ultimo fatto a rendere indispensabile un addestramento speciale. Quei pochi secondi in aria, e in combattimento i secondi sono preziosissimi, possono infatti essere utilizzati per mille cose: dall’alto si può misurare tiro e portata, scegliere il bersaglio, parlare e ricevere, fare fuoco, ricaricare, decidere di saltare di nuovo senza scendere a terra e quindi annullare i comandi automatici per fare intervenire di nuovo i propulsori. Con un po’ di pratica, si riesce a fare tutto durante un solo balzo.
In generale, comunque, le tute potenziate non sono difficili da usare. Fanno tutto loro, esattamente come faremmo noi, però meglio. Hanno un solo difetto: quando si è dentro, è impossibile grattarsi. Se dovessi mai trovare una tuta che permetta di grattarsi tra le scapole, me la sposerei immediatamente.
Ci sono tre tipi di tute nella Fanteria spaziale mobile: il modello d’assalto, di comando e quello da esplorazione. Queste ultime sono molto veloci e a lunga autonomia, ma hanno un’armatura leggera. Le tute da comando consumano molto per gli spostamenti e i salti. Sono veloci e permettono di saltare molto in alto, e in più sono dotate di un circuito radar e di comunicazione tre volte più potente rispetto alle altre. Sono anche le uniche ad avere un sistema di orientamento “cieco” di riserva. Le tute d’assalto sono per gli “addormentati”, gli esecutori.
Forse l’ho già detto, fatto sta che m’innamorai perdutamente di quelle tute, anche se il primo errore che commisi lo pagai caro. Quando il mio squadrone era di turno per l’allenamento con le tute, per me era un gran giorno. La volta in cui commisi l’errore avevo il grado fittizio di sergente, fungevo cioè da finto comandante di plotone ed ero armato con finte bombe A da usare nel buio simulato contro un nemico simulato. Il difficile stava proprio qui: era tutto finto, ma bisognava comportarsi come se tutto fosse vero.
Ci stavamo ritirando, cioè “stavamo avanzando verso le retrovie”, e uno degli istruttori tolse la corrente a uno dei miei uomini, a mezzo comando radio, facendo di lui una “perdita irrecuperabile”. In conformità all’etica della Fanteria spaziale mobile, ordinai di raccoglierlo e mi sentii alquanto fiero per essere riuscito a emanare l’ordine prima che il mio numero due mi precedesse andando di sua iniziativa alla ricerca del compagno. Poi mi voltai per fare la mossa successiva, cioè gettare un finto confetto atomico per impedire al finto nemico di raggiungerci.
La nostra ala stava ripiegando. Dovevo lanciare l’ordigno diagonalmente, lasciando quindi lo spazio necessario affinché i miei uomini non fossero investiti dall’esplosione, e nello stesso tempo facendolo cadere abbastanza vicino ai nemici da causare scompiglio nelle loro fila. Il tutto scattando, naturalmente. I movimenti sul terreno e i vari problemi connessi erano stati preliminarmente discussi, a tavolino: eravamo ancora dei novellini, e in definitiva le uniche variazioni non previste erano le perdite umane.
La teoria richiedeva che io individuassi esattamente, a mezzo radar, i miei uomini che potevano restare colpiti dall’esplosione. Ma tutto questo andava fatto scattando, e io non ero ancora particolarmente svelto a leggere i piccoli schermi radar all’interno del casco. Imbrogliai solo un po’: con un movimento brusco della testa rialzai i visualizzatori e guardai a occhio nudo nella piena luce del giorno. Secondo me, c’era tutto lo spazio che mi occorreva. Figuriamoci, vedevo benissimo il mio uomo in pericolo, a ottocento metri di distanza, e non dovevo lanciare altro che un minuscolo razzo HE, destinato a provocare un gran fumo e niente più. Perciò scelsi l’obiettivo a occhio, puntai il lanciarazzi e tirai. Poi rimbalzai via, soddisfatto. Non avevo perso nemmeno un secondo.
Ma mentre mi trovavo a mezz’aria mi venne tolta la corrente. Non ci si fa male, l’effetto è a scoppio ritardato e scatta con l’atterraggio. Una volta ridisceso rimasi lì, immobile, sostenuto dai giroscopi, ma incapace di fare un gesto. Potete immaginare come ci si possa sentire: chiusi in una tonnellata di metallo e senza corrente. Altro che muoversi!
In compenso, imprecavo a tutto spiano. Non avevo previsto che mi avrebbero fatto fare la “perdita” proprio quando toccava a me condurre l’azione. Che idiota ero stato! Dovevo immaginarlo che il sergente Zim avrebbe tenuto sotto controllo il caposquadrone.
Infatti mi balzò addosso e mi parlò in privato tramite il “faccia a faccia”. Insinuò che il massimo che avrei potuto fare era scopare i pavimenti, dato che ero troppo stupido, imbranato e distratto per maneggiare piatti e bicchieri sporchi. Discusse del mio passato, del mio futuro e fece altri apprezzamenti generici, tutt’altro che lusinghieri. Finì dicendo in tono piatto: — Ti piacerebbe se il colonnello Dubois avesse visto quello che hai fatto?
Poi mi lasciò. Aspettai là acquattato, e ci rimasi due ore buone, fino al termine dell’esercitazione. La tuta potenziata, che mi era sembrata fatta di piume, versione moderna degli stivali delle sette leghe, era diventata uno strumento di tortura.
Finalmente Zim tornò da me, riebbi la corrente e balzammo insieme a velocità massima verso il quartier generale.
Il capitano Frankel fu di meno parole ma più incisivo.
Quando ebbe finito di dirmi quello che pensava, aggiunse, con il tono piatto che gli ufficiali sfoggiano quando citano i regolamenti: — È tuo diritto chiedere di essere giudicato dalla corte marziale, se ci tieni. Che cosa rispondi?
Deglutii e dissi: — Signornò! — Fino a quel momento non mi ero reso conto della gravità del guaio in cui mi ero cacciato.
Il capitano Frankel parve lievemente sollevato. — Allora sentiremo cosa dirà il comandante di reggimento. Sergente, scorti il prigioniero. — Raggiungemmo in tutta fretta il comando, e per la prima volta incontrai faccia a faccia il comandante di reggimento. In quel momento ero convintissimo che mi deferisse alla corte marziale. Ma ricordavo che Ted Hendrick si era messo nei guai per avere parlato troppo, e così non aprii bocca.
Il maggiore Malloy mi disse cinque parole in tutto. Dopo avere ascoltato il sergente Zim, me ne disse altre tre: — Confermi questa versione?
Risposi: — Signorsì — e con questo conclusi, per quanto mi riguardava.
Il maggiore Malloy parlò al capitano Frankel. — C’è una possibilità di recuperare questo soldato?
Il capitano Frankel rispose: — Credo di sì.