Per complicare ancor più le cose, nei secondi che seguono il lancio della truppa, l’astronave sgancia una serie di capsule fasulle che scendono più rapidamente, dal momento che non si sfaldano. In tal modo precedono la fanteria, esplodono e svolgono il ruolo di falsi bersagli, confondendo i radar e ancor di più le idee di coloro che si apprestano a darci il “benvenuto”. Nel frattempo l’astronave, saldamente collegata al segnale direzionale del comandante di plotone, indifferente ai disturbi radar che ha provocato, vi segue in ogni minimo spostamento, calcolando l’impatto per utilizzare il dato in futuro.
Dissoltosì anche il secondo involucro, il terzo aprì automaticamente il primo paracadute. La fase fu breve, ma tutto funzionò nel migliore dei modi. Uno strappo energico a parecchie gravità, poi il paracadute se ne andò per la sua strada e io per la mia. Il secondo paracadute durò più a lungo e così il terzo. Dentro la capsula cominciava a fare un caldo infernale: era tempo di pensare all’atterraggio.
Il terzo involucro si sfaldò subito dopo il distacco del terzo paracadute. Ormai non avevo più niente intorno a me, salvo la tuta potenziata e un uovo di materia plastica. Ero ancora legato con le cinghie all’interno dell’abitacolo, impossibilitato a muovermi, ed era ormai tempo di decidere dove e come sarei atterrato. Senza muovere le braccia (non potevo) schiacciai con il pollice il tasto che attivava il calcolo della distanza dal suolo, che lessi sul quadrante luminoso posto all’interno del casco.
Tre chilometri. Già un po’ troppo vicino per i miei gusti, tanto più che ero l’ultimo. L’uovo aveva raggiunto una velocità costante, quindi non dovevo più restarci chiuso dentro. A giudicare dalla sua temperatura, non si sarebbe disintegrato tanto presto. Così premetti un pulsante con l’altro pollice e me ne liberai.
La prima scarica recise tutte le cinghie, la seconda frantumò il guscio di plastica in otto pezzi… e mi ritrovai all’aperto, seduto a mezz’aria e con la possibilità di guardarmi attorno. Ma c’era di più: tutti gli otto pezzi saltati via erano rivestiti di metallo allo scopo di emanare gli stessi riflessi della mia tuta potenziata. Gli addetti ai radar, esseri viventi o cibernetici che fossero, avrebbero avuto in quel momento il loro daffare per individuarmi fra tutta quella paccottiglia, senza contare le altre migliaia di frammenti e rottami che piovevano da tutte le parti e fluttuavano sopra e sotto di me. Durante l’addestramento, a un fante spaziale mobile si fa constatare da terra, sia a occhio nudo sia con il radar, quanto un lancio confonda le idee di chi sta giù a difendersi. Questo gli serve a vincere la sensazione di trovarsi allo scoperto nei momenti che precedono l’atterraggio. Quella sensazione può facilmente provocare panico, e così si rischia di aprire un paracadute troppo presto diventando un facile bersaglio o di dimenticarsi di aprirlo rompendosi come minimo le caviglie, se non addirittura l’osso del collo.
Mi stirai ben bene, tanto per sgranchirmi, e mi guardai attorno. Poi tornai a chinarmi e mi lanciai in un bel tuffo a faccia in giù, per osservare meglio. Sotto era notte, come previsto, ma i visualizzatori a infrarossi permettono di vedere perfettamente, quando uno ci ha fatto l’abitudine. Il fiume che tagliava la città in diagonale era quasi sotto di me, me lo vedevo correre incontro nitido. La sua temperatura doveva essere superiore a quella del terreno. Non m’importava atterrare su una sponda o sull’altra, mi bastava non finirci dentro: avrei perso tempo prezioso.
Notai un lampo verso destra, su per giù alla mia altezza. Qualche indigeno maldisposto probabilmente aveva centrato uno dei frammenti del mio uovo di plastica. Azionai subito il mio primo paracadute individuale, nell’intento di spostarmi, se possibile, fuori della portata del suo tiro. Mi preparai allo scossone, mi lasciai trasportare, poi fluttuai all’ingiù per circa venti secondi prima di sbarazzarmi del paracadute. Non volevo richiamare l’attenzione su di me scendendo a una velocità diversa da quella del materiale che mi circondava. Evidentemente funzionò, visto che me la cavai.
A circa duecento metri da terra azionai il secondo paracadute. Mi accorsi subito che sarei andato a finire diritto nel fiume. Calcolando che sarei passato circa trenta metri al di sopra di un capannone dal tetto piatto che sorgeva in riva al fiume mi sbarazzai del paracadute e ricorrendo ai propulsori della tuta atterrai in modo un po’ avventuroso sul tetto dell’edificio. Contemporaneamente, cercai il segnale del sergente Jelal.
Scoprii di avere toccato terra sulla sponda sbagliata: la stella di Gelatina brillava sul rilevatore posto all’interno del mio casco molto più a sud di dove avrebbe dovuto essere. Quindi ero io che mi trovavo troppo a nord. Mi portai verso il lato del tetto che guardava sul fiume. Nel contempo calcolai distanza e posizione del capopattuglia più vicino a me, scoprii che era spostato di oltre un chilometro e gli gridai: — Ace, lo schieramento! — Gettai una bomba dietro di me mentre rimbalzavo via dall’edificio e mi accingevo ad attraversare il fiume. Ace rispose come mi sarei dovuto aspettare. Sarebbe dovuto stare al mio posto, ma non aveva voluto abbandonare la sua pattuglia; nello stesso tempo, non gli andava di prendere ordini da me.
Alle mie spalle, il capannone saltò in aria, e lo scoppio mi investì mentre mi trovavo ancora sopra il fiume e non al riparo degli edifici della riva opposta come avevo calcolato. Per poco i miei giroscopi non andarono in pezzi e, quello che è peggio, io con loro. Avevo regolato la bomba sui quindici secondi e… o mi ero sbagliato? D’improvviso mi resi conto che mi ero lasciato prendere dall’ansia, la cosa peggiore che possa capitare quando si è in zona di operazioni. Poco più di un’esercitazione, aveva detto Gelatina, ecco la cosa da tenere presente. Fare le cose con calma e farle bene, a costo di metterci un mezzo secondo in più.
Mentre atterravo ricontrollai la posizione di Ace e dovetti ripetergli di allineare meglio la sua pattuglia. Non mi rispose, ma se ne stava già occupando. Lasciai perdere. Fin tanto che Ace faceva quello che doveva fare, potevo anche chiudere un occhio sulla sua insubordinazione… per ora. Ma una volta tornati a bordo (se Gelatina mi confermava come caposquadra in seconda) avremmo scambiato due parole a quattr’occhi e messo in chiaro chi di noi era il capo. Lui era un caporale di carriera e io soltanto un soldato facente funzioni di caporale, ma lui, in quel momento, era mio subordinato, e ci sono circostanze in cui la disciplina è tutto.
Quello non era certo il momento di pensarci, però. Mentre balzavo al di là del fiume avevo individuato un magnifico bersaglio e volevo raggiungerlo prima che qualcun altro lo notasse: un bel gruppo di costruzioni posto su una collina, probabilmente edifici pubblici, templi o un palazzo. Era qualche chilometro fuori dall’area che stavamo battendo, ma una delle regole del “distruggi” e “squagliatela” è di usare almeno la metà delle proprie munizioni all’esterno dell’area assegnata. In questo modo, il nemico non sa mai esattamente dove ti trovi. Altra regola fondamentale è quella di spostarsi continuamente e agire con la massima rapidità. Quando si lotta contro un numero preponderante di nemici il segreto del successo sta tutto nella rapidità e nella sorpresa.
Stavo richiamando all’ordine Ace per la seconda volta e già caricavo il mio lanciarazzi. La voce di Gelatina si sovrappose nel circuito globale: — Squadrone! Avanzare!