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Il mio diretto superiore, sergente Johnson, gli fece eco: — A balzi, numeri dispari, avanzare!

L’ordine mi concedeva venti secondi durante i quali dovevo soltanto aspettare il mio turno, perciò balzai sull’edificio più vicino, puntai il lanciarazzi e localizzai il bersaglio. Poi, dopo aver azionato il primo espulsore, che dà al razzo il tempo di cercarsi l’obiettivo, premetti il secondo espulsore e il proiettile partì. Balzai di nuovo a terra. — Seconda squadra, numeri pari! — dissi. Calcolai mentalmente e diedi l’ordine: — Avanzare!

E feci lo stesso anch’io, balzando sulla vicina fila di edifici. Mentre ero a mezz’aria, spazzai la riva del fiume con il lanciafiamme. Avevano l’aria di costruzioni di legno, e mi pareva giunto il tempo di farne un bel falò. Con un po’ di fortuna quei capannoni potevano contenere materiale infiammabile o magari esplosivi. Mentre mi posavo a terra, il lanciabombe a Y che portavo sulle spalle fece partire due piccoli ordigni HE, uno a destra e l’altro a sinistra, a un paio di centinaia di metri di distanza, ma non riuscii a vederne l’effetto perché in quel preciso istante il mio primo razzo raggiunse l’obiettivo e si scatenò l’inconfondibile (se se n’è già visto uno in precedenza) bagliore di un’esplosione atomica. Non era niente di particolare, naturalmente, meno di due kiloton di ipotetico rendimento, ma d’altra parte nessuno ci tiene a provocare una catastrofe cosmica a due passi da sé, vero? Comunque era sufficiente a far saltare via la testa di quella collina e indurre tutta la città a precipitarsi nei rifugi. Senza contare che gli indigeni che si fossero trovati all’aperto a guardare in su, per almeno un paio d’ore non sarebbero stati in grado di vedere niente, nemmeno il sottoscritto. Il bagliore, s’intende, non avrebbe abbagliato me e i miei compagni: noi guardiamo attraverso i visualizzatori dei caschi rivestiti di piombo e durante l’addestramento veniamo allenati a proteggere la vista con la massima prontezza.

Chiusi per un attimo gli occhi, poi li riaprii fissandoli su un abitante della città che stava sbucando dall’apertura di un edificio proprio di fronte a me. Mi guardò, lo guardai, poi lui fece per alzare qualcosa, un’arma suppongo. In quell’istante Gelatina ordinò: — Numeri dispari, avanzare!

Non avevo tempo da perdere con quel tale: mi trovavo ancora a mezzo chilometro buono dal punto in cui avrei dovuto essere in quel momento. Con il lanciafiamme che tenevo con la sinistra abbrustolii l’indigeno, poi balzai sull’edificio dal quale era uscito e iniziai a contare. Un lanciafiamme serve prima di tutto a incendiare, ma è ottimo anche come arma difensiva, quando il tempo stringe, perché non occorre prendere la mira con troppa cura.

L’ansia e l’agitazione di arrivare in tempo mi fecero saltare troppo in alto, con una traiettoria troppo ampia. La tentazione di trarre tutto il possibile dai propulsori è sempre forte, ma non fate mai questa sciocchezza poiché finite per trovarvi in aria abbastanza a lungo da offrire un magnifico bersaglio al nemico. Il modo corretto di avanzare è quello di sfiorare ogni edificio che si incontra, sfruttando il riparo che offre prima di rimbalzare via. L’importante è non fermarsi mai in un posto più di un secondo o due. Il nemico, così, non avrà il tempo di prendervi di mira. Spostarsi di continuo, ecco il segreto: trovarsi regolarmente altrove.

Il balzo, tuttavia, mi riuscì male: troppo lungo per atterrare su una fila di edifici, troppo corto per raggiungere quella successiva. Mi accorsi che stavo planando sulla sommità di una costruzione. Non un bel tetto piatto sul quale potessi fermarmi tre secondi per lanciare un altro piccolo razzo A, ma una giungla di tubi e puntelli e altre strutture. Forse uno stabilimento, o un impianto chimico, ma comunque l’ultimo posto su cui atterrare. E, per colmo di sventura, in quel punto stazionava una mezza dozzina di indigeni. Si trattava, fra l’altro, di umanoidi alti quasi tre metri, molto più magri di noi e con una temperatura più alta della nostra. Non portano indumenti, e visti attraverso i visualizzatori risaltano come insegne al neon. A occhio nudo, di giorno, sembrano ancora più buffi. Comunque, preferisco combattere con loro piuttosto che con gli aracnidi. Quelli sono mostri che mi fanno venire la pelle d’oca.

Se quei tizi si trovavano sul tetto prima che il mio razzo esplodesse, non erano in grado di vedere né me né altro. Ma non potevo esserne sicuro, e in ogni caso non volevo scontrarmi con loro, non era quello lo scopo dell’incursione. Perciò, con qualche balzo in più, deviai dal mio percorso spargendo una manciata di pillole incendiarie tanto per tenerli occupati. Poi atterrai, saltai di nuovo, chiamai: — Seconda squadra! Numeri pari… Avanzare! — e continuai la mia marcia per colmare la distanza, cercando a ogni nuovo balzo di individuare un bersaglio che valesse il lancio di un razzo A. Me ne restavano ancora tre, di razzi così, e non intendevo riportarmeli a bordo. D’altra parte mi era stato inculcato il concetto che le armi atomiche dovevano rendere per quello che costavano… ed era solo la seconda volta che mi venivano concesse in dotazione.

Al momento, stavo cercando di individuare l’impianto idrico. Colpirlo significava rendere inabitabile l’intera città costringendo gli abitanti a evacuarla senza ricorrere a spargimenti di sangue: proprio il genere di missione che ci era stata affidata. L’impianto, secondo la carta topografica che avevamo studiato sotto ipnosi, doveva essere circa cinque chilometri più a nord del punto in cui mi trovavo.

Però non riuscivo a vederlo. Forse i miei balzi non mi portavano abbastanza in alto. Fui tentato di andare ancora più in su, ma ricordai quello che Migliaccio mi aveva raccomandato, cioè di non cercare a tutti i costi di procurarmi una medaglia, e così rinunciai. Regolai sull’automatico il lanciabombe a Y, in modo che mollasse un paio di confetti ogni volta che mi posavo. Tra un balzo e l’altro appiccavo fuochi qua e là, a casaccio, intanto cercavo di scoprire l’acquedotto idrico o qualche altro bersaglio degno di nota.

Ecco, qualcosa c’era, alla distanza giusta… Impianto idrico o no, era certo un bersaglio importante. Balzai sulla cima dell’edificio più alto che si trovava nelle vicinanze, presi bene la mira e mollai il terzo razzo. Mentre tornavo giù, sentii la voce di Gelatina: — Johnnie… Red. Manovra di ricongiungimento.

Confermai l’ordine, sentii Red che confermava a sua volta, e sintonizzai il mio segnale sull’emissione intermittente, in modo che Red sapesse esattamente dov’ero. Poi, mentre ordinavo: — Seconda squadra! Cominciare l’accerchiamento. Comandanti di pattuglia, confermare l’ordine — rilevai la posizione esatta di Red.

Le pattuglie Quattro e Cinque risposero: — Ricevuto. — Ace invece disse: — Abbiamo già iniziato la manovra. Guarda che resti indietro.

Il segnale luminoso di Red indicava che l’ala destra si trovava quasi di fronte a me, a una ventina di chilometri. Per tutti i diavoli! Ace aveva ragione, dovevo sbrigarmi, altrimenti non sarei riuscito a coprire in tempo la distanza. Tra l’altro, dovevo sbarazzarmi di un paio di quintali di munizioni e altre cosette che avevo ancora addosso, trovando il tempo di usarle. Eravamo atterrati in formazione a V, con Red e io al vertice delle due estremità della tenaglia. Ora dovevamo chiuderla, formando un cerchio intorno al punto di raccolta: il che significava che dovevamo percorrere più spazio degli altri e fare ugualmente la nostra parte.

L’avanzata a balzi era finita, quando cominciammo la manovra di ricongiungimento. Potevo smetterla di contare e concentrarmi sulla necessità di fare in fretta. Anche se ci si muoveva velocemente il pericolo era in agguato ovunque. All’inizio potevamo beneficiare dell’enorme vantaggio della sorpresa: avevamo toccato terra senza venire colpiti (perlomeno, speravo che nessuno fosse stato centrato durante l’atterraggio) e lo schieramento che avevamo assunto ci consentiva di sparare all’impazzata senza timore di colpirci l’un l’altro, mentre i nemici rischiavano di centrarsi a vicenda nel tentativo di respingerci, ammesso che potessero individuarci. (Non sono un esperto di teoria dei giochi, ma credo che nessun calcolatore avrebbe potuto analizzare quello che stavamo facendo in tempo utile per prevedere la nostra mossa successiva.)