Выбрать главу

Avevamo dei letti, che usavamo troppo poco, camerette, docce e impianti igienici interni. Inoltre, per ogni quattro aspiranti c’era un attendente civile che rifaceva i letti, ripuliva le stanze, lustrava le scarpe, faceva trovare le uniformi stese sul letto e si prodigava per le commissioni. Questo servizio non voleva affatto essere un lusso, e non lo era. Aveva solo lo scopo di concedere a ognuno di noi più tempo per compiere l’impossibile che gli si chiedeva, sollevandolo da quelle incombenze che ogni soldato uscito dal corso di addestramento è già in grado di svolgere alla perfezione. Avrei solo voluto trovarmi tra le mani uno di quei civili convinti che noi viviamo a sbafo per fargli provare un mesetto di corso ufficiali.

Sei giorni lavorerai e farai tutto ciò che potrai, Il settimo la stessa cosa farai.

Oppure, nella versione della truppa, che finisce così: e la scuderia ripulirai. Ciò mostra da quanti secoli questo genere di cose va avanti. Sì, vorrei proprio poter prendere almeno uno di quei civili che pensano che noi oziamo e fargli frequentare per un mese il corso ufficiali.

Tutte le sere e tutta la domenica studiavamo fino a quando gli occhi ci bruciavano e le orecchie ci dolevano. Poi dormivamo (quando dormivamo) con un ripetitore ipnotico che ronzava sotto il cuscino.

Le canzoni che intonavamo durante le marce rispecchiavano la situazione erano deprimenti: “Non ne voglio sapere dell’Esercito, non ne voglio più sapere!”, “Avrei preferito spingere l’aratro in un qualsiasi momento del passato!”. Oppure: “Non voglio addestrarmi alla guerra, non voglio più!”. E ancora: “Non trasformare mio figlio in un soldato, in lacrime la mamma implora”. Ma il brano preferito in assoluto era il vecchio classico Ufficiali gentiluomini, con il suo coro sulla pecorella smarrita: “Dio ha pietà di quelli come noi!”.

Eppure non ricordo di essermi mai sentito giù di morale. Ero troppo occupato, credo. Qui non c’era più il “nodo psicologico” da superare, come avveniva al corso base, ma imperava l’eterno timore di essere sbattuti fuori. La cosa che più mi teneva in ansia era la mia scarsa preparazione in matematica. Il mio compagno di camera, un coloniale di Hesperus che rispondeva al nome stranamente appropriato di Angelo, stava su notti intere per aiutarmi a studiare.

La maggior parte degli istruttori, specialmente gli ufficiali, erano dei mutilati. Gli unici a possedere braccia, gambe, occhi, orecchie, e via dicendo, erano i sergenti istruttori, e neanche tutti. Colui che ci istruiva nelle operazioni di combattimento, per esempio, sedeva sopra una sedia potenziata, portava un colletto di plastica ed era completamente paralizzato dal collo in giù. Ma la lingua non era paralizzata, gli occhi erano fotografici e il modo feroce in cui sapeva analizzare e criticare quello che vedeva compensava perfettamente i suoi handicap.

Inizialmente mi chiedevo perché quei candidati precoci alla pensione non se ne tornavano una buona volta a casa loro. Poi smisi di pormi simili domande.

Ebbi anche il mio momento di gloria quando venne a trovarci la tenente Ibañez, la bella Carmencita dai grandi occhi neri, pilota in corso d’addestramento sulla corvetta Mannerheim. Incredibilmente disinvolta nella divisa bianca della Marina, leggera come un sottile foglio di cellophane, Carmencita fece la sua comparsa mentre la mia classe era allineata per l’ispezione prima del pasto serale. Passò davanti alla fila dei cadetti, provocando un grande sbattere di palpebre, andò dritta dall’ufficiale di servizio e chiese di me con voce alta e squillante.

L’ufficiale di servizio, il capitano Chandar, del quale si diceva che non avesse mai sorriso nemmeno a sua madre, sorrise alla piccola Carmen, gli si trasfigurò il volto e ammise la mia esistenza. Lei lo ringraziò facendo muovere su e giù le lunghissime ciglia nere, gli spiegò che la sua astronave stava per partire e… chiese se le era possibile portarmi a cena.

Così mi trovai in mano un permesso di tre ore del tutto irregolare e assolutamente privo di precedenti. Forse la Marina aveva sviluppato tecniche ipnotiche la cui conoscenza non era ancora stata estesa all’Esercito. Oppure l’arma segreta di Carmencita era assai più antica e decisamente al di fuori della portata dei fanti spaziali. Comunque fosse, non solo beneficiai di tre ore ineguagliabili, ma il mio prestigio presso i compagni di corso salì a un’altezza vertiginosa.

Fu una serata splendida, che valse senza dubbio le due prove non superate del giorno dopo, rattristata dal fatto che entrambi avevamo saputo che Carl era rimasto ucciso quando i ragni avevano distrutto la nostra stazione di ricerche su Plutone. Ma tutti e due avevamo imparato a sopportare e superare traumi come questi.

Una cosa mi colpì. Mentre stavamo mangiando, Carmen si tolse il berretto bianco: i suoi capelli talmente neri da sembrare blu erano scomparsi. Sapevo che molte ragazze della Marina si tagliavano i capelli a zero (non è pratico dover tenere in ordine una lunga chioma a bordo di una nave da guerra, e in particolare un pilota non può rischiare di avere i capelli che se ne vanno da tutte le parti durante le manovre in caduta libera), così come facevo anch’io, per pulizia e per comodità. Ma l’immagine di Carmencita per me era inscindibile dalla folta cascata di neri capelli ondulati.

Quando ci si è abituati, però, la cosa ha un suo fascino. Voglio dire che se una ragazza è bella continua a esserlo anche con la testa rapata. Inoltre, serve a distinguere una ragazza della Marina dalle pollastrelle civili. Insomma, è una specie di distintivo come i teschi d’oro che indicano i lanci di combattimento. In quel modo Carmencita si distingueva dalle altre, ci guadagnava in dignità e per la prima volta divenni consapevole del fatto che era un ufficiale e un combattente, oltre che una ragazza stupenda.

Tornai al campo con gli occhi pieni di stelle e addosso una leggera traccia di profumo. Carmencita mi aveva salutato con un bacio.

L’unica materia del corso della quale ho intenzione di parlarvi è storia e filosofia morale.

Rimasi sorpreso trovandola elencata tra le altre. È una materia che non ha proprio niente a che fare con la strategia e la tattica. Anche l’interrogativo “Perché si combatte?” era stato già sviscerato da ogni allievo ufficiale molto prima di arrivare al corso. Un fante spaziale mobile combatte perché è un fante spaziale mobile.

Conclusi che quel corso doveva essere una ripetizione per quelli di noi (circa un terzo) che avevano frequentato scuole in cui la materia era obbligatoria. Più del venti per cento dei miei compagni non proveniva dalla Terra. (La percentuale di coloniali che presta il servizio militare è molto più alta di quella dei terrestri, ed è un dato che fa pensare.) Del restante ottanta per cento, alcuni venivano dai territori associati e da altri luoghi dove forse storia e filosofia morale non erano insegnate. Così, mi illudevo che almeno quella materia fosse una passeggiata per il sottoscritto, permettendomi di risparmiare tempo da dedicare a qualcosa di più difficile.

Mi sbagliavo, ovviamente. A differenza di quanto accadeva al liceo, in questo caso bisognava ottenere la promozione. E non bastava solo superare un esame. Il corso comprendeva esami, tesine, quiz. Ma non c’erano voti: bastava il parere dell’insegnante. Se l’insegnante esprimeva un parere negativo, il candidato veniva portato davanti a una commissione incaricata di stabilire non solo se poteva diventare ufficiale, ma addirittura se era degno di fare parte dell’Esercito, a prescindere dall’abilità nel maneggio delle armi. La commissione decideva poi se fargli seguire corsi supplementari o sbatterlo fuori e rimandarlo a casa come civile.