Poi il maggiore chiese: — Qualcuno saprebbe dirmi perché non è mai avvenuta una rivoluzione contro il nostro sistema? Nonostante ce ne siano state contro tutti i governi che la storia ricordi, e a dispetto, come tutti sappiamo delle lagnanze continue e forti anche tra noi?
Uno dei cadetti più anziani prese la parola: — Maggiore, da noi la rivoluzione è impossibile.
— D’accordo. Ma perché?
— Perché una rivoluzione, una levata di scudi, richiede non solo scontento, ma anche aggressività. Un rivoluzionario deve essere disposto a combattere e a morire, oppure è soltanto uno che chiacchiera a vuoto. Se voi separate i tipi aggressivi e ne fate cani da pastore, il gregge non vi procurerà mai grane.
— La spiegazione è ottima. Con le analogie bisogna andare cauti, ma questa è veramente azzeccata. Domani mi porterete anche una dimostrazione matematica. C’è tempo per un’altra domanda. Fatemela e risponderò. C’è qualcuno tra voi che vuole porla?
— Ecco, maggiore… perché allora non andare fino in fondo, pretendendo che tutti svolgano il servizio militare e che quindi votino?
— Giovanotto, lei può ridarmi la vista?
— Come? No, signore!
— Eppure si accorgerebbe che è molto più facile che instillare la virtù morale, ovvero la responsabilità sociale, in coloro che non la possiedono, non la desiderano e non tollerano di sentirsi gettare addosso un simile fardello. Per questo noi rendiamo così difficile l’arruolamento e così semplici le dimissioni. Un senso di responsabilità sociale che vada al di là della famiglia, o al massimo della tribù, richiede fantasia, devozione, lealtà, tutte le virtù più alte che un uomo deve sviluppare autonomamente. Se gliele imporrete, finirà per rigettarle. Nel passato si faceva così, e… Ma andate in biblioteca a consultare la perizia psichiatrica sui prigionieri che avevano subito il lavaggio del cervello nella cosiddetta Guerra di Corea, risalente al 1950 circa, il Rapporto Meyer, e domani fatemene avere un’analisi. — Toccò l’orologio. — Potete andare.
Il maggiore Reid ci caricava di lavoro, ma il suo corso era molto interessante. Una volta mi capitò una di quelle tesine volte a verificare la padronanza della materia che lui appioppava in modo assolutamente casuale. Io sostenni che le crociate erano state diverse dalla maggior parte delle guerre. Mi venne affidato il compito di dimostrare che guerra e moralità derivano da un’identica matrice genetica.
Ne conseguì l’affermazione secondo cui tutte le guerre nascono da un’esplosione demografica (già, anche le crociate, per quanto occorra approfondire le motivazioni commerciali, il carattere dell’incremento delle nascite e un sacco di altre cose per poterlo dimostrare). Tutte le regole morali hanno come matrice l’istinto di conservazione. Il comportamento morale può essere manifestato solo da chi si eleva al di sopra del livello dell’individuo, come un padre che muore per salvare il figlio. Ma poiché l’espansione demografica nasce anche dalla necessità di sopravvivere, la guerra conseguente alla crescita della popolazione è un portato del medesimo istinto congenito che dà vita a tutte le regole morali adatte agli esseri umani.
E a questo punto viene la seguente domanda: è possibile abolire la guerra (e di conseguenza evitare tutti i mali evidenti che ne derivano), limitando l’espansione demografica con l’elaborazione di un codice morale che fissi i limiti di una popolazione tenendo conto delle risorse naturali?
Senza bisogno di discutere sull’utilità o la moralità della pianificazione delle nascite, basta osservare che quando un popolo limita il proprio incremento demografico viene integrato, assorbito dai popoli in espansione. Nella storia della Terra, alcuni popoli hanno intrapreso un simile percorso, e sono stati assorbiti da altri.
D’altra parte, supponiamo che la specie umana riesca a calibrare mortalità e natalità in modo conveniente rispetto alla densità di popolazione ottimale per i suoi pianeti, e che quindi diventi una razza pacifica. Che cosa succederà?
Presto, molto presto, arriveranno i ragni, elimineranno questa specie che avrà perso ogni interesse alla guerra e noi scompariremo dall’universo. La qual cosa può ancora succedere. Quindi, o ci espandiamo noi e spazziamo via i ragni o si espandono loro e spazzano via noi, perché le specie sono intelligenti e decise e mirano ai medesimi spazi.
Avete un’idea della rapidità con cui un’incontrollata espansione demografica può portarci a sovrappopolare l’universo? La risposta vi sorprenderebbe: un battito di palpebre, in rapporto all’antichità della nostra specie.
Provate a fare i calcoli, è un’espansione a interesse composto.
E qui sorge un’altra domanda: l’uomo ha il diritto di espandersi nell’universo?
L’uomo è quello che è, un animale selvaggio che vuole sopravvivere a tutti i costi, e che (finora) ha avuto la capacità di farlo, a dispetto di tutte le competizioni interne. Se non si accetta questo dato di fatto, ogni affermazione sulla morale, la guerra, la politica eccetera non ha senso.
La morale rigorosa deriva dalla consapevolezza di che cosa è l’uomo. Di che cosa è, non di che cosa la nostra vecchia zia vorrebbe che fosse. In seguito, sarà l’universo a incaricarsi di dirci se l’uomo ha o non ha il diritto di espandersi.
In attesa di saperlo, c’è la Fanteria spaziale mobile, pronta a intervenire in difesa della nostra specie.
Verso la fine del corso ufficiali ciascuno di noi veniva inviato a fare pratica sotto un comandante esperto. Si trattava di una specie di esame preliminare, in base al quale il consiglio degli istruttori poteva anche decidere che un candidato non aveva la stoffa per quel mestiere. Era ammesso fare ricorso, ma non si è mai saputo di qualcuno che abbia intrapreso queste vie. O gli allievi tornavano con l’approvazione, o nessuno li rivedeva più.
Alcuni non tornavano non perché si erano dimostrati inadeguati, ma semplicemente perché erano rimasti uccisi: si andava a fare pratica su astronavi da guerra in missione. Avevamo l’ordine di tenere sempre pronti gli zaini. Un giorno, durante il pranzo, tutti i cadetti della mia compagnia con funzioni di comando furono chiamati contemporaneamente: se ne andarono senza neanche mangiare, e io mi ritrovai responsabile della compagnia. Senz’altro un onore, ma scomodissimo.