1 — stabilire il contatto con il comandante di squadrone che aveva tenuto fino a quel momento la mia zona;
2 — determinare i confini e distribuire squadre e pattuglie;
3 — stabilire contatti con gli otto comandanti di squadrone che avevo ai lati e agli angoli, di cui cinque erano già in posizione (quelli del Primo e del Quinto reggimento) e tre (Khoroshen delle guardie nere, Bayonne e Sukarno dei lupi) stavano occupando adesso le posizioni;
4 — fare in modo che i miei uomini raggiungessero le loro posizioni nel tempo più breve.
Quest’ultima operazione era la più urgente. L’ultima pattuglia, quella di Brumby, doveva piegare a sinistra; quella di testa, con Cunha, doveva procedere fino al limite massimo e allargarsi verso sinistra in senso obliquo; le altre quattro dovevano aprirsi a ventaglio tra l’una e l’altra. Questo è lo spiegamento normale, e lo avevamo provato in camera di lancio per accelerare l’esecuzione. Chiamai: — Cunha, Brumby! Spiegamento! — usando il circuito sottufficiali.
— Prima squadra, ricevuto… Seconda squadra, ricevuto.
— Capisquadra, prendere il comando… e mettere in guardia i novellini. Incontrerete molti cherubini di Chang. Attenti a non colpirli per errore! — Serrai le mascelle per inserire il mio circuito privato; — Sergente, ha stabilito i contatti con la sinistra?
— Signorsì. Mi hanno visto e vedono lei.
— Bene. Non vedo il segnale al nostro angolo più avanzato…
— Il segnale manca.
— Guidi Cunha. Faccia lo stesso per il capo degli esploratori, Hughes, e gli dica di piantare un nuovo segnale. — Mi chiedevo come mai quelli del Primo e del Quinto non avessero sostituito quel segnale limite, cioè quello posto al mio angolo sinistro anteriore, punto dove ben tre reggimenti s’incontravano.
Era inutile parlarne. Proseguii: — Controllo radio. Portatevi a due sette cinque, chilometri diciannove.
— Signore, il lato opposto è nove sei, chilometri diciannove scarsi.
— Abbastanza vicino. Non ho ancora trovato il mio lato opposto, quindi sto tagliando a dritta al massimo. Attenti, mi raccomando!
— Ricevuto, signor Rico.
Avanzai alla velocità massima mordendo il circuito ufficiali. — Riquadro uno, riquadro uno, mi sentite? Cherubini di Chang, rispondete. — Volevo parlare con il comandante dello squadrone al quale davamo il cambio, e non prendere soltanto le consegne. Volevo la verità senza abbellimenti.
Quello che avevo visto non mi piaceva affatto.
O gli alti comandi erano stati molto ottimisti nel credere che avessimo impiegato forze preponderanti contro una base di ragni di poca importanza, o alle guardie nere era stato assegnato un punto dove le cose erano andate malissimo. Nei pochi istanti passati da quando ero uscito dalla lancia, avevo visto una mezza dozzina di tute potenziate sparse al suolo. Fossero di morti o di feriti recuperati, erano comunque troppe.
Inoltre, il mio schermo radar mostrava uno squadrone completo (il mio) intento a rilevare la posizione, ma solo pochi uomini in movimento per rientrare nelle lance. E quel rientro avveniva per di più senza nessun ordine.
Ero responsabile di quasi duemila chilometri quadrati di terreno nemico, e volevo assolutamente scoprire tutto il possibile prima che i miei uomini vi si sparpagliassero. Il piano di battaglia prevedeva un’inquietante nuova opzione strategica: lasciare aperte le gallerie dei ragni. Blackie ce ne aveva parlato come se si trattasse di una trovata geniale partita da lui, ma dubitavo molto che ne fosse soddisfatto.
La strategia era semplice, e forse anche logica, ammesso che potessimo sopportare le perdite conseguenti: lasciare che i ragni salissero, affrontarli, ucciderli in superficie.
Dopo un certo tempo, un giorno, due giorni, una settimana, se le nostre forze erano davvero preponderanti, i ragni avrebbero smesso di sciamare dalle gallerie. Il comando supremo aveva calcolato (non chiedetemi come) che i ragni avrebbero sacrificato dal 70 al 90 per cento dei loro guerrieri prima di darsi per vinti. Dopodiché avremmo tentato di catturare viva la “nobiltà”, uccidendo i guerrieri superstiti via via che ci introducevamo nelle gallerie.
Conoscevamo l’aspetto dei cervelli, li avevamo visti morti, in fotografia, e sapevamo che non potevano fuggire. Erano forniti di gambe poco funzionali, e avevano corpi gonfi, composti più che altro da sistemi nervosi. Le regine nessuno le aveva mai viste, ma i corpi di Biologia bellica avevano elaborato modelli circa il loro probabile aspetto: mostri laidi, più grossi di un cavallo e assolutamente immobili.
Oltre ai cervelli e alle regine potevano esserci altre figure. In ogni modo, l’ordine era di lasciare affiorare in superficie i guerrieri, poi catturare vivi tutti quanti, salvo i guerrieri e gli operai.
Molto bello e logico, sulla carta. Per quanto mi riguarda, sapevo solo di dovere pattugliare un’area di sessanta chilometri per trentacinque che poteva rivelarsi densamente cosparsa di buchi aperti. Volevo le coordinate di ciascuno di essi.
Se ce n’erano troppi… be’ avrei potuto accidentalmente tapparne qualcuno e lasciare che i miei ragazzi sorvegliassero gli altri. Un soldato semplice in tuta da predatore può coprire un bel po’ di terreno, ma può guardare solo una cosa per volta, non è un superuomo.
Balzai avanti, precedendo la mia pattuglia di testa di parecchi chilometri, continuando a chiamare il comandante di squadrone dei cherubini. Tentai di mettermi in contatto con uno qualsiasi dei loro ufficiali inviando le coordinate del mio risponditore a segnale (dah-di-dah-dah).
Nessuna risposta.
Ricevetti invece una risposta dal mio comandante. — Johnnie! Piantala di chiamare. Rispondimi sul circuito di comando.
Obbedii, e Blackie mi informò che era inutile cercare il comandante dei cherubini: nessuno ormai li guidava. Forse qualche sottufficiale era ancora vivo da qualche parte, ma la catena di comando si era spezzata.
Secondo le regole, qualcuno viene sempre fatto avanzare di grado. Ma questo non accade se troppi anelli sono stati distrutti, come mi aveva messo in guardia una volta il colonnello Nielssen in un passato assai remoto… quasi un mese prima.
Il capitano Chang era entrato in azione con tre ufficiali. Adesso ne era rimasto uno solo (Abe Moise, mio compagno di corso), e Blackie stava cercando di sapere qualcosa da lui. Abe non gli fu di molto aiuto. Quando mi unii al colloquio e mi feci riconoscere, Abe credendomi il suo comandante di battaglione mi fece un rapporto di una precisione straziante, anche perché non aveva alcun senso.
Blackie lo interruppe e mi ordinò di proseguire: — Dimentichiamo la faccenda delle consegne da rilevare. La situazione è quella che ci si presenta. Non c’è che da guardarsi attorno e prenderne atto.
— D’accordo! — Sfrecciai attraverso la mia area verso l’angolo più lontano, quello di raccordo con gli altri reggimenti. Procedevo alla massima velocità, e intanto masticavo circuiti. — Sergente! Quel segnale?
— Impossibile piantarlo, signore. In quel punto c’è un cratere appena aperto, di ampiezza sei, circa.
Fischiai mentalmente. In un cratere sei ci stava tutta quanta la Tours. Uno dei sistemi difensivi a cui i ragni ricorrevano, quando noi eravamo in superficie e loro sottoterra, erano le mine. (Apparentemente non usavano mai missili, tranne che dalle navi spaziali.) Se vi trovavate sul posto, la scossa sismica vi trascinava sotto mentre se eravate in aria l’onda d’urto poteva mettervi fuori uso i giroscopi e annientare i comandi della tuta.
Il cratere più grande che avevo visto era di ampiezza quattro. Si diceva che i ragni non utilizzassero esplosioni sotterranee più forti per non danneggiare i loro rifugi.
— Sistemi il segnale dove è possibile — ordinai — e avverta i comandanti di squadra e di pattuglia.