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Quando salì in macchina non si accorse neppure che gli avevano “rigato” il parafango appena riverniciato.

Fuori c'era ancora un po' di sole, che si posò sui capelli color topo e lui la vide bellissima.

FANTOZZI CHIEDE L'INDENNITÀ DI VOLO

Fantozzi una mattina in ufficio si accorse che sapeva volare.

Erano circa le 11 e faceva un gran caldo, aveva deciso di rimandare tutto il lavoro al pomeriggio e se ne stava lì con una pratica “fantoccio” aperta davanti agli occhi. Stava pensando a quello che poteva fare sua figlia a scuola: la pensò tutta impegnata in un faticoso dettato, con le mani sporche di penna biro, la testina china sul quaderno e un pezzetto di lingua fuori. Si sentì un po' intenerito e si buttò all'indietro sbadigliando. Aprì le braccia e si stirò languidamente, finì lo sbadiglio con un mugolio e lo accompagnò con un battito delle braccia, quasi come fossero le ali di un gabbiano, e con sua grande meraviglia si sentì sollevare dalla sedia. Rimase immobile senza crederci. Poi ci riprovò, ed ecco che sentì come una forza misteriosa che lo faceva quasi galleggiare sopra la scrivania. Gli cominciò a battere il cuore, si toccò il polso, ma non era spaventato, solo molto, tremendamente stupefatto. Nella stanza non c'erano i suoi due colleghi di lavoro: erano alla toilette a leggere la pagina sportiva, e lui era di guardia. Sporse la testa in corridoio: nessuno. Rientrò, si mise al centro della stanza, e questa volta agitò con forza le braccia. Si sollevò leggermente a un metro da terra, rimanendo immobile, poi si accorse che con una piccola sforbiciata delle gambe poteva virare lentamente. Diede un colpetto più deciso con le mani e fece, aiutandosi anche con le gambe, un giro intorno al lampadario. Diminuì il battito delle braccia e andò a sedersi dolcemente sulla scrivania di Fracchia. Respirava a fatica. Rientrarono i suoi compagni di stanza.

La campana delle 12,30 suonò prima del solito e Fantozzi nella pausa di colazione andò a casa. Sua moglie era dalla suocera con la bambina. Volò dalla cucina al bagno, dal bagno alla stanza da pranzo per quasi un'ora, alla fine si diresse velocemente verso la stanza da letto, si fermò di colpo e si lasciò cadere a corpo morto sul letto.

Decise di andare in ufficio volando di tetto in tetto a piccoli balzi. Entrò dalla finestra della stanza del quinto piano. Quando Fracchia e Filini, alle 14,30, entrarono gli chiesero: “Già qui, ma a che ora ha timbrato?”. Si era dimenticato di timbrare il cartellino e corse giù al quarto piano e marcò “rosso”.

Cominciò allora per Fantozzi una nuova vita. Andava in ufficio regolarmente con la sua utilitaria, timbrava e aspettava. Aspettava le ore morte del mattino, verso le 11. I colleghi erano di “riposo” e lui solo nella stanza: apriva la finestra e spiccava il volo.

Per la prima settimana faceva dei piccoli svolazzi sui tetti. Una volta arrivò addirittura alla campana della cattedrale e si stupì molto nel vedere tutti quei nidi di rondine nella cella campanaria.

Poi prese coraggio e cominciò ad avventurarsi sul mare, illuminato dal sole, a volo radente. Una volta si riposò sull'albero di un grande transatlantico in rotta per chissà dove: l'Australia, l'Atlantide forse.

Ritornava nella sua stanza verso mezzogiorno. Aveva scoperto un passaggio dai tetti, un vecchio archivio, dove nessuno lo avrebbe potuto vedere. Alle 12,30 timbrava e tornava a casa in macchina.

Nel pomeriggio volava sempre in collina e la cosa che lo esaltava di più era buttarsi giù in picchiata e sfiorare le piante di menta di cui sentiva il profumo. Una sera, tornando in ufficio quando il sole era tramontato, si sentì molto felice.

Una volta fece tardi e rientrò direttamente dalla finestra della sua stanza. Fracchia rimase a bocca aperta. “Ero sul cornicione a… prendere un po' di sole” tentò Fantozzi. “Ma quale cornicione?” domandò Fracchia, che ben sapeva che non c'era alcun cornicione. “Ma lei sa volare!” incalzò Fracchia, e lui dovette confessare.

La notizia rimase circoscritta al suo ufficio, e i colleghi cominciarono a usarlo per piccoli servizi. Qualcuno lo mandava a fare il bollo della macchina, chi a imbucare una raccomandata. Poi cominciarono a usarlo per commissioni esterne della ditta. Era diventato per il suo capufficio un uomo prezioso. La cosa durò un po' di tempo, poi un giorno Fracchia gli chiese: “Ma lei perché non chiede l'indennità di volo? Ne ha diritto, sa?”. Lui allora fece domanda scritta su apposito modulo al capo del personale. Questi rimase stupito, e non osando assumersi alcuna responsabilità domandò consiglio al direttore centrale che si consigliò col Megapresidente.

Il Megapresidente volle subito sapere il nome di questo impiegato che sapeva volare e pensando già dì farne il suo segretario lo volle mettere alla prova.

La “prova” gliela fissarono un venerdì mattino pieno di sole. Gli avevano preparato davanti ai parcheggi delle macchine una piccola pedana di legno di due metri, da dove si doveva buttare. Lui era già pronto alle 8,30 con l'abito blu e una cravatta nuova verde a pallini bianchi.

Alle 11 arrivarono tutti i dirigenti con il Megapresidente e presero posto su delle sedie affittate in una chiesa vicina.

Fantozzi aveva le mani sudate e il cuore gli batteva molto forte. Il Megapresidente fece un gesto imperioso con la mano. Lui attese un attimo e poi si buttò.

Si ruppe la tibia destra. Lo portarono all'ospedale. Il capo del personale lo andò a trovare e gli disse che il presidente era molto seccato per quella farsa, ma che comunque, visto che aveva una figlia, non lo avrebbe licenziato.

Tornò in ufficio appoggiandosi a un bastone e chiese di parlare con il suo direttore. Lo pregò di domandare a Fracchia, a Filini e a tutti i colleghi che lo avevano visto volare e si erano anche serviti di lui se lo consideravano un ciarlatano e lo pregò dì assicurare al Megapresidente che non si trattava di una montatura. Ma con suo grande stupore seppe che tutti, interrogati in merito, avevano già giurato di non averlo mai visto in volo, anzi seppe che qualcuno aveva fatto anche dei commenti negativi sulla sua poca serietà professionale.

Fracchia lo consigliò di farsi vedere da uno psichiatra. Il medico gli spiegò che il fatto era dovuto a superlavoro e gli prescrisse delle pillole. Passò un po' di tempo, e lui stesso cominciò a pensare che tutto fosse frutto della sua immaginazione.

Una mattina, verso le 11, quando tutti erano a “leggere”, si mise al centro della stanza, agitò le braccia e si sollevò, anche se aveva la gamba ingessata.

Tornò al suo posto sorridendo e non disse mai più nulla a nessuno.

LA VOLTA CHE FANTOZZI GIOCÒ A BOCCE

Domenica è stata una giornata infernale con pioggia a dirotto fino a sera, ma la scampagnata con il direttore dell'ufficio acquisti, conte dottor Mughini, era stata programmata da tempo.

L'appuntamento era alle 4 del mattino sotto la casa del conte. Fantozzi alle 3 e venti era già in attesa, stravolto dal sonno. Non aveva dormito per paura di non svegliarsi e aveva due borse sotto agli occhi che gli arrivavano fino alla vita. Il conte si presentò a mezzogiorno in punto: “Mi scusi, mi ero assopito”. Partirono; volle guidare il conte. Dopo tre ore tremende di macchina lungo una strada tutta a curve, nella quale Fantozzi vomitò anche il polmone sinistro, arrivarono alla “Trattoria del cacciatore”: un posto tragico, su una curva pericolosissima, con continuo passaggio di macchine lanciate a folle velocità. Ogni 26 minuti un'utilitaria usciva di strada: ed entrando dalle cucine raggiungeva la sala ristorante e falciava il novanta per cento degli avventori. Ma c'era una tale ressa, in piedi ad aspettare, che gli investiti venivano subito rimpiazzati da nuovi clienti. Fantozzi e il conte aspettarono ventitrè minuti esatti. Poi, dopo il dodicesimo incidente, presero posto. Era finito tutto e mangiarono solo una squallida spaghettata al burro.