Gli astronauti avanzarono fra due ali di nobildonne e baronetti inglesi vittoriani, il colpo d'occhio era stupendo sembrava di essere alla Esposizione universale di Londra del 1851 organizzata dal principe Alberto a Crystal Palace.
Per colmo di jella quando a Fantozzi stavano per presentare la contessa Serbelloni che era per forza anche zia del megapresidente, la signora Pina in un moto di giovanile entusiasmo gli sparò una manciata di coriandoli. Lui stava proprio sbadigliando per darsi un tono distaccato e quando cercò di parlare con la contessa era già cianotico e respirava a fatica con un fischio. I balli erano d'epoca. Nessuno faceva ballare le astronaute, ma Fracchia prese una iniziativa eroica: invitò la moglie di un grande avvocato che indossava uno stupendo e costosissimo costume confezionato per l'occasione. l'orchestra attaccò subito uno sfrenato galop. Quando la dama secondo le regole si fermò di colpo con la musica per rifare la sala in senso inverso, Fracchia preso in contropiede volò in strada dalla finestra aperta accompagnato dall'urlo dell'intera sala. Poi si fece un grande silenzio di quattro minuti esatti, nei quali Fracchia rientrò dalla porta principale col morale un po' a terra. Pensò di invitare un'altra dama, ma gli rifiutarono tutti i balli. Fantozzi come sempre si ubriacò e cominciò a trovare la gente molto simpatica e dimenticò anche il suo costume da astronauta. Sul finire della festa segnalò a Fracchia due dame velate che ammiccavano e occhieggiavano da un po' di tempo.
Intrigarono per rispedire le astronaute a casa in taxi, poi rimasti soli cominciarono a ballare con le dame misteriose dei “lenti”. l'orchestra aveva abbandonato i balli d'epoca e le luci erano state abbassate da una sapiente regia. Ballarono stretti e voluttuosi per una mezz'ora, alle tre in punto improvvisamente le dame velate fuggirono con dei curiosi gridolini nell'oscurità del parco. E i due dietro. Le raggiunsero vicino a degli oleandri e qui Fantozzi cercò di baciare la sua dama. Le strappò il velo e si trovò faccia a faccia con il rag. Fonelli dell'ufficio legale che aveva fama di noto omosessuale. Da dietro un cipresso Fracchia uscì con un velo in mano, era pallidissimo: aveva baciato un giovane artificiere del genio, l'amico notorio del rag. Fonelli.
Lunedì in ufficio ai colleghi che domandavano se avevano fatto conquiste alla festa, i due rispondevano molto evasivamente.
FANTOZZI VA DAL SARTO IN TRANSILVANIA
Su consiglio del rag. Fonelli, Fantozzi decise di trascorrere i quattro giorni di ferie che gli restavano dall'anno scorso vicino al Passo Nero in Transilvania.
Era questo un paese aspro e inospitale, ricoperto di fitti e scuri boschi di abeti e pini candelabri, in una regione ricca di argentee cascate che le notti di luna illuminavano tetramente. Una sera Fantozzi decise di lasciare l'albergo “Postarich” (Hotel della Posta) dove alloggiava, in una linda stanzetta tutta in legno con stufa di ceramica e catinella e brocca per l'acqua, per incontrare al di là del Passo Nero un suo vecchio compagno di scuola, certo Folchignoni, un italo-bulgaro che faceva l'avvocato civilista nella cittadina di Pec oltre i monti Tenìbres.
Viaggiò tutta notte e arrivò a Pec, una tipica cittadina valacca, alle 10 del mattino. Folchignoni lo accolse sulla soglia di casa con un caldo abbraccio: “Vieni,” disse “accompagnami fin dal mio sarto, devo fare una prova”. Fantozzi l'accompagnò di buon grado, ma durante il tragitto in carrozza si accorse che l'amico appariva nervoso e spaventato. Il Folchignoni gli spiegò brevemente che il sarto si chiamava Gólam ed era potente e crudele: lui purtroppo era costretto ad andarci anche se era pieno di vestiti e mantelli di ogni tipo. Per Fantozzi era una situazione poco chiara, ma internamente si fece beffe dei timori dell'amico.
Entrarono con la carrozza nel recinto del castello del sarto. C'era un'aria strana e fredda. Un domestico a testa bassa li portò nella grande sala prove del 3° piano.
Mai aveva veduto tante meraviglie del Rinascimento italiano radunate in una sola stanza! E poi una statua in legno nero del Bustolón raffigurante uno schiavo dalmata, specchi veneziani e cristalli di Boemia, il tutto illuminato da una curiosa luce che filtrava attraverso delle grandi vetrate di alabastro.
Rimase muto ed estatico, mentre Folchignoni teneva gli occhi bassi. D'un tratto si udì uno squillo di trombe d'argento risuonare dai piani inferiori per tutto il castello e preceduto da un applauso registrato e da quattro valletti in camicia bianca e calzoni verdi comparve Gólam il sarto. Era un uomo di straordinaria statura e vigoria fisica. Folchignoni si chinò fino a terra e gli baciò l'anello scuro di onice che quello gli porse tenendolo con due dita. Il suo amico questa volta si faceva preparare un paio di calzoni alla zuava che gli erano stati imposti dal Gólam. Durante la prova Fantozzi ammirava le grandi scaffalature sulle quali erano infilate migliaia di pezze di stoffa multicolori. Ne stava palpando una quando avvertì alle sue spalle la mole del Gólam, il quale con una voce dolcissima gli chiese: “Vuole questo vestito, vero, signor Fantozzi?”. Lui rimase esterrefatto, sia per la musicalità della voce che usciva da quella montagna umana sia perché il sarto mostrava di sapere il suo nome benché nessuno li avesse ancora presentati. Dopo un attimo di smarrimento rispose: “No, grazie… Semmai in un altro momento”. Il volto del Gólam fu attraversato da un cortese sorriso.
Quando uscirono Folchignoni gli afferrò il braccio e lo implorò: “Ti prego, fatti fare quell'abito, fallo per me!”. Fantozzi rispose un po' stupito che non aveva soldi e che non aveva bisogno di un abito. Vista però la faccia disperata dell'avvocato lo pregò di riportarlo dal sarto. L'amico lo lasciò tutto solo al portale d'ingresso del castello e si allontanò frustando i cavalli.
Ora l'atmosfera era più ostile e l'aria scura era molto fredda. Fantozzi domandò al maggiordomo che gli aprì la porta: “Il Gólam?”.
“È su in bagno.” “Aspetto” disse lui.
“No, è in bagno che sta bagnando il suo abito, ha deciso di metterlo in prova. Ricordi, signore, la prima prova è venerdì sera, al crepuscolo!“ Fantozzi ritornò in città a piedi.
Era una bella sera di maggio e Pec era tutta illuminata dagli ultimi raggi di sole, era allegro e passeggiò a lungo per le strade del centro, guardando le ragazze e i mandorli in fiore. Aveva però dei cupi presentimenti.
La sera del giovedì venne un messo dal castello con una lettera perentoria del Gólam, che gli ricordava la prova dell'indomani al crepuscolo. Nella notte Fantozzi dormì poco. La giornata di venerdì la passò a leggere De consolatione philosophiae di Boezio e a bere yogurt bulgaro.
A sera, con un calesse a noleggio, si recò al castello. Quando entrò nella sala prove un incendio di cento soli al tramonto filtrava attraverso le vetrate di alabastro.
Attese senza timore, poi uno scoppio di trombe d'argento si propagò per tutto il castello fin dalle fondamenta, ed ecco, preceduto da venti valletti e da un lungo applauso registrato, il Gólam. Abbracciò Fantozzi secondo la moda balcanica e lo invitò a sedersi al suo fianco su un divano di broccato.
Un valletto portò del rosolio verde smeraldo. Il Gólam alzò il bicchiere e disse con voce dolcissima: “Al suo nuovo abito!”.
Fantozzi bevve il liquore di smeraldo e sentì una fitta dolorosa allo stomaco: era fortissimo!
Il Gólam urlò all'improvviso: “Si metta in mutande e calze!”.
Fantozzi aveva le calze bucate e arrossì violentemente quando i venti valletti in camicia bianca e pantaloni verdi vedendo i buchi risero sommessamente.
Lo portarono alla grande specchiera veneziana a quattro ante orientabili. Il Gólam batté le mani e dal fondo della sala avanzarono quattro inservienti che portavano il suo abito imbastito.
Il Gólam durante la prova era distratto. Guardava la luce del tramonto alle vetrate di alabastro e beveva liquore verde.