Era stato un venerdì sera. Elizabeth se lo ricordava, perché Tib portava l’uniforme Angel Flight del Corpo Addestramento Ufficiali in Riserva, e dopo che Tupper aveva deviato tempestivamente per evitarle, alzando grandi schizzi d’acqua e rovesciando la bicicletta, la prima cosa che disse fu: «Caspita! È un poliziotto!»
Lo avevano aiutato a raccogliere le buste di plastica che si erano sparpagliate per terra. «Che sono queste?» aveva detto Tib, incurvando la schiena perché non poteva piegarsi a terra per via della gonna blu aderente e dei tacchi alti.
«Tupperware,» disse. «L’ultima novità. Ragazze, non è che vi serve uno scomparto per l’insalata? Sono grandi per metterci i vermi.»
Carter Hall sembrava esattamente la stessa da fuori, brutta pietra beige e mattoni di vetro. Era stata la sede dell’associazione studentesca, ma ora ospitava l’ufficio per il sussidio economico e il personale. All’interno era stata completamente ridisegnata. Elizabeth non sapeva nemmeno dire dove si fosse trovato il bar.
«Lo può compilare qui se vuole,» disse la ragazza che le consegnò il modulo di richiesta, e le diede una penna. Elizabeth appese la giacca allo schienale di una sedia e si mise a sedere a un banco davanti alla finestra. Sebbene la finestra fosse appannata, sentiva un po’ freddo.
Se ne erano andati tutti all’associazione studentesca per mangiare la pizza. Elizabeth aveva appeso l’impermeabile giallo in fondo alla sala. Tupper aveva fatto finta di strizzare la giacca jeans e l’aveva stesa sul termosifone. La finestra era talmente appannata che non si riusciva a vedere fuori. Tib aveva scritto con il dito “Odio la pioggia” sul vetro e Tupper aveva parlato di come si manteneva all’università vendendo Tupperware.
«Sono grandi per tenerci i biscotti,» disse, tirando fuori una grande scatola rosa che definì un portacereali. Ci infilò dentro un pezzo di pizza e mostrò come metterci il coperchio e sigillarlo per bene. «Ecco. Si mantiene per settimane. Anni. Dài. Ve ne serve uno. Scommetto che le mamme vi mandano biscotti tutti i giorni.»
Era al terzo anno. Era alto e magro, e quando si rimise indosso la giacca jeans umida, le maniche si erano accorciate e i polsi gli spuntavano fuori. Si era seduto vicino a Tib da un lato della sala ed Elizabeth si era messa dall’altro. Aveva parlato quasi tutta la sera con Tib, e al momento di pagare il conto si era piegato verso di lei e le aveva bisbigliato qualcosa. Elizabeth era sicura che le stesse chiedendo di uscire con lui, ma sulla via del ritorno Tib le aveva detto: «Sai cosa voleva, no? Il tuo numero di telefono.»
Elizabeth si alzò in piedi e si rimise la giacca. Restituì la penna alla ragazza col maglione e la gonna. «Credo che lo riempirò a casa, poi lo riporto.»
«Va bene,» disse la ragazza.
Quando Elizabeth uscì fuori di nuovo, aveva smesso di piovere. Gli alberi sgocciolavano ancora, con grandi gocce che picchiettavano sul viale bagnato. Camminò lungo il largo viale centrale verso il suo vecchio dormitorio, guardando dove metteva i piedi in modo da non calpestare nessun verme. Il dormitorio era diventato l’infermeria dell’università. Si fermò e rimase per un po’ sotto la finestra centrale, guardando in alto verso la stanza che era stata sua e di Tib.
Tupper si era piazzato sotto la finestra e si era messo a tirare dei sassolini. Tib aveva aperto la finestra e aveva urlato: «Smettitela di tirare sassi, altrimenti…» Qualcosa la colpì al petto. «Oh, ciao, Tupper…» disse, e lo raccolse dal pavimento passandolo poi a Elizabeth. «È per te,» disse. Non era un sassolino. Era un aggeggio di plastica rosa, uno degli omaggi che distribuiva alle riunioni Tupperware che organizzava.
«Che sarebbe questo?» aveva detto Elizabeth, sporgendosi dalla finestra e agitandolo nella sua direzione. Pioveva. Tupper aveva il colletto della giacca jeans tirato su ed era visibilmente infreddolito. Il marciapiede intorno a lui era ricoperto di omaggi di plastica rosa.
«Un regalo,» disse. «È un separauova.»
«Non ho uova.»
«Allora mettitelo al collo. Saremo ufficialmente strapazzati.»
«O separati.»
Cercò di portarsi la mano libera al petto. «Mai!» esclamò. «Vuoi venire con me fra i vermi? Devo fare delle consegne.» Stringeva in mano diverse buste di plastica piene di ciotole e portacereali.
«Vengo subito giù,» aveva detto, ma poi si era fermata e aveva cercato un nastro per legarsi indosso il separauova prima di scendere le scale.
Elizabeth abbassò lo sguardo verso il marciapiede, ma non c’erano omaggi di plastica sul cemento bagnato. C’era una grande pozzanghera vicino al cordolo, e un verme proprio in bilico sul bordo. Si mosse un po’ mentre lo osservava, in quella orribile maniera molliccia che aveva sempre odiato, dopodiché si fermò.
Una ragazza la sfiorò, camminando a passi veloci. Mise un piede nella pozzanghera, ed Elizabeth fece mezzo passo indietro per non farsi schizzare. L’acqua della pozzanghera si increspò e strabordò con un’ondata. Il verme cadde al di là del cordolo andando a finire nella fogna.
Elizabeth alzò lo sguardo. La ragazza aveva già percorso metà del viale centrale, in ritardo per la lezione o arrabbiata o tutt’e due le cose. Indossava un’uniforme degli Angel Flight e tacchi alti, e portava i capelli biondi tagliati corti pettinati all’indietro con dei riccioli che le sporgevano ai lati del berretto militare.
Elizabeth scese dal marciapiede. La fogna era intasata di foglie morte e piena d’acqua. Il verme c’era affondato dentro. Si inginocchiò, seduta sui talloni, con il modulo di richiesta nella mano destra. Il verme sarebbe affogato, no? Gliel’aveva detto Tupper. Quando pioveva, i vermi uscivano sui marciapiedi proprio perché le loro gallerie si riempivano d’acqua, e sarebbero affogati se non lo facevano.
Si rimise in piedi e lanciò di nuovo uno sguardo al viale centrale, ma la ragazza se n’era andata, e non c’era nessun altro nel campus. Si rimise in ginocchio e portò il modulo sull’altra mano, quindi infilò la destra nell’acqua gelata e raccolse il verme con la mano a conca, pensando che ce l’avrebbe fatta a tenerlo se non si fosse mosso, ma appena le dita ne toccarono la soffice pelle rosa, lo lasciò cadere e strinse il pugno.
«Non ce la faccio,» disse Elizabeth, strofinandosi la mano bagnata su un lato dell’impermeabile, come se potesse cancellare il ricordo di aver toccato il verme.
Prese il modulo con entrambe le mani e lo affondò nell’acqua come una paletta. La carta divenne un po’ flaccida, ma lei la spinse fra le foglie sporche e bagnate, pescò il verme e lo rimise sul marciapiede. Non si mosse.
«E grazie a Dio escono sui marciapiedi!» aveva detto Tupper, accompagnandola a casa in mezzo alla strada dopo aver consegnato i prodotti Tupperware. «A te fanno schifo quando li vedi qui! E se non uscissero sui marciapiedi? Se rimanessero tutti nelle buche e affogassero? Hai mai dovuto fare la respirazione bocca a bocca a un verme?»
Elizabeth si rimise in piedi. La richiesta di lavoro era bagnata e sporca. C’era una patacca marrone nel punto toccato dal verme, e una riga di sporco in cima. Doveva buttarla via e tornare da Carter per prenderne un’altra. La aprì e separò attentamente le pagine bagnate, in modo che non si sarebbero appiccicate quando le avesse asciugate.
«Ho frequentato le lezioni di pronto soccorso lo scorso semestre, e dovevamo fare la respirazione bocca a bocca,» aveva detto Tupper, in piedi in mezzo alla strada davanti al dormitorio. «Che belle lezioni! Ho venduto ventidue vaschette per l’equipaggiamento contro i morsi di serpente. Lo sai come si fa la respirazione bocca a bocca?»
«No.»
«È facile,» aveva detto Tupper, e le aveva messo la mano dietro al collo e l’aveva baciata, in mezzo alla strada, sotto la pioggia.