E così dicendo indicava un mendicante storpio, gobbo, mezzo cieco, sporco e pieno di croste.
- Ma com'è possibile, - protestò il re, - tra noi due c'è un abisso.
- Un re che deve morire, - insisteva il mago, - somiglia soltanto al più povero, al più disgraziato della città. Presto, cambia i tuoi vestiti con i suoi per un giorno, mettilo sul trono e sarai salvo.
Ma il re non volle assolutamente ammettere di assomigliare al mendicante. Tornò al palazzo tutto imbronciato e quella sera stessa morì, con la corona in testa e lo scettro in pugno.
Il mago delle comete
Una volta un mago inventò una macchina per fare le comete. Somigliava un tantino alla macchina per tagliare il brodo, ma non era la stessa, e serviva per fabbricare comete a volontà, grandi o piccole, con la coda semplice o doppia, con la luce gialla o rossa, eccetera.
Il mago girava per paesi e città, non mancava mai a un mercato, si presentava anche alla Fiera di Milano e alla Fiera dei cavalli, a Verona, e dappertutto mostrava la sua macchina e spiegava com'era facile farla funzionare. Le comete uscivano piccole, con un filo per tenerle, poi man mano che salivano in alto diventavano della grandezza voluta, ed anche le più grandi non erano più difficili da governare di un aquilone. La gente si affollava intorno al mago, come si affolla sempre intorno a quelli che mostrano una macchina al mercato, per fare gli spaghetti più fini o per pelare le patate, ma non comprava mai neanche una cometina piccola così.
- Se era un palloncino, magari, - diceva una buona donna, - ma se gli compro una cometa il mio bambino chissà che guai combina.
E il mago: - Ma fatevi coraggio! I vostri bambini andranno sulle stelle, cominciate ad abituarli da piccoli. - No, no, grazie. Sulle stelle ci andrà qualcun altro, mio figlio no di sicuro.
- Comete! Comete vere! Chi ne vuole?
Ma non le voleva nessuno.
Il povero mago, a furia di saltar pasti, perché non rimediava una lira, era ridotto pelle e ossa. Una sera che aveva più fame del solito trasformò la sua macchina per fare le comete in una caciottella toscana e se la mangiò.
Il pescatore di Cefalú
Una volta un pescatore di Cefalù, nel tirare in barca la rete, la sentì pesante pesante, e chissà cosa credeva di trovarci. Invece ci trovò un pesciolino lungo un mignolo, lo afferrò con rabbia e stava per ributtarlo in mare quando udì una vocina sottile che diceva:
- Ahi, non mi stringere così forte.
Il pescatore si guardò intorno e non vide nessuno, né vicino né lontano, e alzò il braccio per buttare il pesce, ma ecco di nuovo la vocina:
- Non mi buttare, non mi buttare!
Allora capì che la voce veniva dal pesce, lo aprì e ci trovò dentro un bambino piccolo piccolo, ma ben fatto, coi piedi, le mani, la faccina, tutto proprio a posto, solo che dietro la schiena aveva due pinne, come i pesci.
- Chi sei?
- Sono il bambino di mare.
- E che vuoi da me?
- Se mi terrai con te ti porterò fortuna. Il pescatore sospirò:
- Ho già tanti figli da mantenere, proprio a me doveva toccare questa fortuna di averne da sfamare un altro.
- Vedrai, - disse il bambino di mare.
Il pescatore lo portò a casa, gli fece fare una camicia per nascondere le pinne e lo mise a dormire nella culla del suo ultimo nato, e non occupava nemmeno mezzo cuscino con tutta la persona.
Quello che mangiava, però, era uno spavento: mangiava più lui di tutti gli altri figli del pescatore, che erano sette, uno più affamato dell'altro.
- Una bella fortuna davvero, - sospirava il pescatore. - Andiamo a pescare? - disse la mattina dopo il bambino di mare con la sua vocetta sottile sottile. Andarono, e il bambino di mare disse: - Rema diritto fin che te lo dico io. Ecco, siamo arrivati. Butta la rete qua sotto.
Il pescatore ubbidì, e quando ritirò la rete la vide piena come non l'aveva mai vista, ed era tutto pesce di prima qualità.
Il bambino di mare batté le mani: - Te l'avevo detto, io so dove stanno i pesci.
In breve tempo il pescatore arricchì, comprò una seconda barca, poi una terza, poi tante, e tutte andavano in mare a buttare le reti per lui, e le reti si riempivano di pesce fino, e il pescatore guadagnava tanti soldi che dovette far studiare da ragioniere uno dei suoi figli per contarli.
Diventando ricco, però, il pescatore dimenticò quel che aveva sofferto quando era povero. Trattava male i suoi marinai, li pagava poco, e se protestavano li licenziava.
- Come faremo a sfamare i nostri bambini? - essi si lamentavano.
- Dategli dei sassi, - egli rispondeva, - vedrete che li digeriranno.
Il bambino di mare, che vedeva tutto e sentiva tutto, una sera gli disse:
- Bada che quel che è stato fatto si può disfare.
Ma il pescatore rise e non gli diede retta. Anzi, prese il bambino di mare, lo rinchiuse in una grossa conchiglia e lo gettò in acqua.
E chissà quanto tempo dovrà passare prima che il bambino di mare possa liberarsi. Voi cosa fareste al suo posto?
Il re Mida
Il re Mida era un grande spendaccione, tutte le sere dava feste e balli, fin che si trovò senza un centesimo. Andò dal mago Apollo, gli raccontò i suoi guai e Apollo gli fece questo incantesimo: - Tutto quello che le tue mani toccano deve diventare oro.
Il re Mida fece un salto per la contentezza e tornò di corsa alla sua automobile, ma non fece in tempo a toccare la maniglia della portiera che subito la macchina diventò tutta d'oro: ruote d'oro, vetri d'oro, motore d'oro. Era diventata d'oro anche la benzina, così la macchina non camminava più e bisognò far venire un carro coi buoi per trasportarla.
Appena a casa il re Mida andava in giro per le stanze a toccare più cose che poteva, tavoli, armadi, sedie, e tutto diventava d'oro. A un certo punto ebbe sete, si fece portare un bicchiere d'acqua, ma il bicchiere diventò d'oro, l'acqua pure, e se volle bere dovette lasciarsi imboccare dal suo servo col cucchiaio.
Venne l'ora di andare a tavola. Toccava la forchetta e diventava d'oro e tutti gli invitati battevano le mani e dicevano: - Maestà, toccatemi i bottoni della giacca, toccatemi questo ombrello.
Il re Mida li faceva contenti, ma quando prese il pane per mangiare anche quello diventò d'oro e se volle cavarsi l'appetito dovette farsi imboccare dalla regina. Gli invitati si nascondevano sotto il tavolo a ridere e il re Mida si arrabbiò, ne acchiappò uno e gli fece diventare d'oro il naso, così non poteva più soffiarselo.
Venne l'ora di andare a dormire, ma il re Mida, senza volerlo, toccò il cuscino, toccò le lenzuola e il materasso, diventarono d'oro massiccio ed erano troppo duri per dormirci. Gli toccò di passare la notte seduto su una poltrona, con le braccia alzate per non toccare niente, e la mattina dopo era stanco morto. Corse subito dal mago Apollo per farsi disfare l'incantesimo, e Apollo lo accontentò.
- Va bene, - gli disse, - ma sta' bene attento, perché per far passare l'incantesimo ci vogliono sette ore e sette minuti giusti, e in questo tempo tutto quello che toccherai diventerà cacca di mucca.
Il re Mida se ne andò tutto consolato, e stava bene attento all'orologio, per non toccare niente prima che fossero passati sette ore e sette minuti.
Purtroppo il suo orologio correva un po' più del necessario, e andava avanti un minuto ogni ora. Quando ebbe contato sette ore e sette minuti il re Mida aprì la macchina e ci montò, e subito si trovò seduto in mezzo a un gran mucchio di cacca di mucca, perché mancavano ancora sette minuti alla fine dell'incantesimo.
Il semaforo blu