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Una volta il semaforo che sta a Milano in piazza del Duomo fece una stranezza. Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu, e la gente non sapeva più come regolarsi.

- Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo?

Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l'insolito segnale blu, di un blu che così blu il cielo di Milano non era stato mai.

In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano: - Lei non sa chi sono io!

Gli spiritosi lanciavano frizzi: - Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna.

- Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini.

- Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l'olio d'oliva.

Finalmente arrivò un vigile e si mise lui in mezzo all'incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente.

Prima di spegnersi il semaforo blu fece in tempo a pensare:

«Poveretti! Io avevo dato il segnale di "via libera" per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio».

Il topo che mangiava i gatti

Un vecchio topo di biblioteca andò a trovare i suoi cugini, che abitavano in solaio e conoscevano poco il mondo.

- Voi conoscete poco il mondo, - egli diceva ai suoi timidi parenti, - e probabilmente non sapete nemmeno leggere.

- Eh, tu la sai lunga, - sospiravano quelli.

- Per esempio, avete mai mangiato un gatto?

- Eh, tu la sai lunga. Ma da noi sono i gatti che mangiano i topi.

- Perché siete ignoranti. Io ne ho mangiato più d'uno e vi assicuro che non hanno detto neanche: Ahi!

- E di che sapevano?

- Di carta e d'inchiostro, a mio parere. Ma questo è niente. Avete mai mangiato un cane?

- Per carità.

- Io ne ho mangiato uno proprio ieri. Un cane lupo. Aveva certe zanne... Bene, si è lasciato mangiare quieto quieto e non ha detto neanche: Ahi!

- E di che sapeva?

- Di carta, di carta. E un rinoceronte l'avete mai mangiato?

- Eh, tu la sai lunga. Ma noi un rinoceronte non l'abbiamo visto mai. Somiglia al parmigiano o al gorgonzola?

- Somiglia a un rinoceronte, naturalmente. E avete mai mangiato un elefante, un frate, una principessa, un albero di Natale?

In quel momento il gatto, che era stato ad ascoltare dietro un baule, balzò fuori con un miagolio minaccioso. Era un gatto vero, di carne e d'ossa, con baffi e artigli. I topolini volarono a rintanarsi, tranne il topo di biblioteca, che per la sorpresa era rimasto immobile sulle sue zampe come un monumentino. Il gatto lo agguantò e cominciò a giocare con lui.

- Tu saresti il topo che mangia i gatti?

- Io, Eccellenza... Lei deve comprendere... Stando sempre in libreria...

- Capisco, capisco. Li mangi in figura, stampati nei libri.

- Qualche volta, ma solo per ragioni di studio.

- Certo. Anch'io apprezzo la letteratura. Ma non ti pare che avresti dovuto studiare un pochino anche dal vero? Avresti imparato che non tutti i gatti sono fatti di carta, e non tutti i rinoceronti si lasciano rosicchiare dai topi.

Per fortuna del povero prigioniero il gatto ebbe un attimo di distrazione, perché aveva visto passare un ragno sul pavimento. Il topo di biblioteca, con due salti, tornò tra i suoi libri, e il gatto dovette accontentarsi di mangiare il ragno.

Abbasso il nove

Uno scolaro faceva le divisioni:

- Il tre nel tredici sta quattro volte con l'avanzo di uno. Scrivo quattro al quoto. Tre per quattro dodici, al tredici uno. Abbasso il nove...

- Ah no, - gridò a questo punto il nove. - Come? - domandò lo scolaro.

- Tu ce l'hai con me: perché hai gridato «abbasso il nove»? Che cosa ti ho fatto di male? Sono forse un nemico pubblico?

- Ma io...

- Ah, lo immagino bene, avrai la scusa pronta. Ma a me non mi va giù lo stesso. Grida «abbasso il brodo di dadi», «abbasso lo sceriffo», e magari anche «abbasso l'aria fritta», ma perché proprio «abbasso il nove»?

- Scusi, ma veramente...

- Non interrompere, è cattiva educazione. Sono una semplice cifra, e qualsiasi numero di due cifre mi può mangiare il risotto in testa, ma anch'io ho la mia dignità e voglio essere rispettato. Prima di tutto dai bambini che hanno ancora il moccio al naso. Insomma, abbassa il tuo naso, abbassa gli avvolgibili, ma lasciami stare.

Confuso e intimidito, lo scolaro non abbassò il nove, sbagliò la divisione e si prese un brutto voto. Eh, qualche volta non è proprio il caso di essere troppo delicati.

Tonfino l'invisibile

Una volta un ragazzo di nome Tonino andò a scuola che non sapeva la lezione ed era molto preoccupato al pensiero che il maestro lo interrogasse.

«Ah, - diceva tra sé, - se potessi diventare invisibile...»

Il maestro fece l'appello, e quando arrivò al nome di Tonino, il ragazzo rispose: - Presente! - ma nessuno lo sentì, e il maestro disse: - Peccato che Tonino non sia venuto, avevo giusto pensato di interrogarlo. Se è ammalato, speriamo che non sia niente di grave.

Così Tonino comprese di essere diventato invisibile, come aveva desiderato. Per la gioia spiccò un salto dal suo banco e andò a finire nel cestino della carta straccia. Si rialzò e si aggirò qua e là per la classe, tirando i capelli a questo e a quello e rovesciando i calamai. Nascevano rumorose proteste, litigi a non finire. Gli scolari si accusavano l'un l'altro di quei dispetti, e non potevano sospettare che la colpa era invece di Tonino l'invisibile.

Quando si fu stancato di quel gioco Tonino uscì dalla scuola e salì su un filobus, naturalmente senza pagare il biglietto, perché il fattorino non poteva vederlo. Trovò un posto libero e si accomodò. Alla fermata successiva salì una signora con la borsa della spesa e fece per sedersi proprio in quel sedile, che ai suoi occhi era libero.

Invece sedette sulle ginocchia di Tonino, che si sentì soffocare. La signora gridò: - Che tranello è questo? Non ci si può più nemmeno sedere? Guardate, faccio per posare la borsa e rimane sospesa per aria.

La borsa in realtà era posata sulle ginocchia di Tonino. Nacque una gran discussione, e quasi tutti i passeggeri pronunciarono parole di fuoco contro l'azienda tranviaria.

Tonino scese in centro, si infilò in una pasticceria e cominciò a servirsi a volontà, pescando a due mani tra maritozzi, bignè al cioccolato e paste d'ogni genere. La commessa, che vedeva sparire le paste dal banco, diede la colpa a un dignitoso signore che stava comprando delle caramelle col buco per una vecchia zia. Il signore protestò: - Io un ladro? Lei non sa con chi parla. Lei non sa chi era mio padre. Lei non sa chi era mio nonno!

- Non voglio nemmeno saperlo, - rispose la commessa.

- Come, si permette di insultare mio nonno!

Fu una lite spaventosa. Corsero le guardie. Tonino

l'invisibile scivolò tra le gambe del tenente e si avviò verso la scuola, per assistere all'uscita dei suoi compagni. Difatti li vide uscire, anzi, rotolare giù a valanga dai gradini della scuola, ma essi non lo videro affatto. Tonino si affannava invano a rincorrere questo e quello, a tirare i capelli al suo amico Roberto, a offrire un leccalecca al suo amico Guiscardo. Non lo vedevano, non gli davano retta per nulla, i loro sguardi lo trapassavano come se fosse stato di vetro.