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- Piano, Guglielmo, fa ben pianino, se no mi rompo.

A non camminare mai diventava sempre più grasso, e più diventava grasso più diventava delicato. Perfino i calli sulle mani di Guglielmo gli davano noia.

- Ma Guglielmo, quante volte ti devo dire che per portarmi devi metterti i guantini.

Guglielmo sbuffava e si infilava a fatica certi guantoni che sarebbero andati larghi a un ippopotamo.

Ma il signor Fallaninna era ogni giorno più pesante e il povero Guglielmo sudava d'inverno come d'estate, e una volta gli venne in mente:

- Che cosa succederebbe se buttassi giù il signor Fallaninna dal balcone?

Successe che proprio quel giorno il signor Fallaninna si era messo un vestito di lino bianco e quando Guglielmo lo buttò giù dal balcone cadde su una cacchettina di mosca e si fece una macchiolina sui calzoni. Per vederla ci voleva la lente, ma Fallaninna era tanto delicato che morì dal dispiacere.

Uno e sette

Ho conosciuto un bambino che era sette bambini. Abitava a Roma, si chiamava Paolo e suo padre era un tranviere.

Però abitava anche a Parigi, si chiamava Jean e suo padre lavorava in una fabbrica di automobili.

Però abitava anche a Berlino, e lassù si chiamava Kurt, e suo padre era un professore di violoncello.

Però abitava anche a Mosca, si chiamava Juri, come Gagarin, e suo padre faceva il muratore e studiava matematica.

Però abitava anche a Nuova York, si chiamava Jimmy e suo padre aveva un distributore di benzina.

Quanti ne ho detti? Cinque. Ne mancano due: uno si chiamava Ciú, viveva a Shanghai e suo padre era un pescatore; l'ultimo si chiamava Pablo, viveva a Buenos Aires e suo padre faceva l'imbianchino.

Paolo, Jean, Kurt, Juri, Jimmy, Ciú e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.

Paolo era bruno, Jean biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciú la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino. Pablo andava al cinema in spagnuolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua.

Ora sono cresciuti tutti e sette, e non potranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo.

L'uomo che rubava il Colosseo

Una volta un uomo si mise in testa di rubare il Colosseo di Roma, voleva averlo tutto per sé perché non gli piaceva doverlo dividere con gli altri. Prese una borsa, andò al Colosseo, aspettò che il custode guardasse da un'altra parte, riempì affannosamente la borsa di vecchie pietre e se le portò a casa. Il giorno dopo fece lo stesso, e tutte le mattine tranne la domenica faceva almeno un paio di viaggi o anche tre, stando sempre bene attento che le guardie non lo scoprissero. La domenica riposava e contava le pietre rubate, che si andavano ammucchiando in cantina.

Quando la cantina fu piena cominciò a riempire il solaio, e quando il solaio fu pieno nascondeva le pietre sotto i divani, dentro gli armadi e nella cesta della biancheria sporca. Ogni volta che tornava al Colosseo lo osservava ben bene da tutte le parti e concludeva fra sé: «Pare lo stesso, ma una certa differenza si nota. In quel punto là è già un po' più piccolo». E asciugandosi il sudore grattava un pezzo di mattone da una gradinata, staccava una pietruzza dagli archi e riempiva la borsa. Passavano e ripassavano accanto a lui turisti in estasi, con la bocca aperta per la meraviglia, e lui ridacchiava di gusto, anche se di nascosto: - Ah, come spalancherete gli occhi il giorno che non vedrete più il Colosseo.

Se andava dal tabaccaio, le cartoline a colori con la veduta del grandioso anfiteatro gli mettevano allegria, doveva fingere di soffiarsi il naso nel fazzoletto per non farsi vedere a ridere: - Ih! Ih! Le cartoline illustrate. Tra poco, se vorrete vedere il Colosseo, dovrete proprio accontentarvi delle cartoline.

Passarono i mesi e gli anni. Le pietre rubate si ammassavano ormai sotto il letto, riempivano la cucina lasciando solo uno stretto passaggio tra il fornello a gas e il lavandino, colmavano la vasca da bagno, avevano trasformato il corridoio in una trincea. Ma il Colosseo era sempre al suo posto, non gli mancava un arco: non sarebbe stato più intero di così se una zanzara avesse lavorato a demolirlo con le sue zampette. Il povero ladro, invecchiando, fu preso dalla disperazione. Pensava: «Che io abbia sbagliato i miei calcoli? Forse avrei fatto meglio a rubare la cupola di San Pietro? Su, su, coraggio: quando si prende una decisione bisogna saper andare fino in fondo».

Ogni viaggio, ormai, gli costava sempre più fatica e dolore. La borsa gli rompeva le braccia e gli faceva sanguinare le mani. Quando sentì che stava per morire si trascinò un'ultima volta fino al Colosseo e si arrampicò penosamente di gradinata in gradinata fin sul più alto terrazzo. Il sole al tramonto colorava d'oro, di porpora e di viola le antiche rovine, ma il povero vecchio non poteva veder nulla, perché le lacrime e la stanchezza gli velavano gli occhi. Aveva sperato di rimaner solo, ma già dei turisti si affollavano sul terrazzino, gridando in lingue diverse la loro meraviglia. Ed ecco, tra tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: - Mio! Mio!

Come stonava, com'era brutta quella parola lassù, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire «nostro», invece che «mio», ma gli mancarono le forze.

Ascensore per le stelle

A tredici anni Romoletto venne assunto come aiuto garzone al bar Italia. Gli affidarono i servizi a domicilio, e tutto il giorno egli correva su e giù per strade e per scale, reggendo in equilibrio vassoi pericolosamente carichi di chicchere, tazze e bicchieri. Più che altro gli davano fastidio le scale: a Roma, come del resto in altri posti del mondo, le portinaie sono gelose dei loro ascensori e ne vietano l'accesso, di persona o con cartelli, a baristi, lattai, fruttaroli e simili.

Una mattina telefonò al bar l'interno quattordici del numero centotre, voleva quattro birre e un tè ghiacciato, «ma subito, o li butto dalla finestra», aggiunse una voce burbera, ed era quella del vecchio marchese Venanzio, terrore dei fornitori.

L'ascensore del numero centotre era di quelli proibitissimi, ma Romoletto sapeva come ingannare la sorveglianza della portinaia, che sonnecchiava nella guardiola: sgattaiolò non visto nella cabina, infilò le cinque lire nell'apparecchio a scatto, schiacciò il bottone del quinto piano e l'ascensore partì cigolando. Ecco il primo piano, il secondo, il terzo. Dopo il quarto piano, invece di rallentare, l'ascensore accelerò la corsa, schizzò davanti al pianerottolo del marchese Venanzio senza fermarsi, e prima che Romoletto avesse il tempo di meravigliarsi tutta Roma giaceva ai suoi piedi e l'ascensore saliva alla velocità di un razzo verso un cielo tanto azzurro da sembrar nero.

- Ti saluto, marchese Venanzio, - mormorò Romoletto con un brivido. Con la mano sinistra egli reggeva sempre in equilibrio il vassoio con le consumazioni, e la cosa era piuttosto da ridere, considerando che intorno all'ascensore si allargava ormai ai quattro venti lo spazio interplanetario, e la terra, laggiù laggiù, in fondo all'abisso celeste, ruotava su se stessa trascinando nella sua corsa il marchese Venanzio che aspettava le quattro birre e il tè ghiacciato.

«Almeno non arriverò tra i marziani a mani vuote», pensò Romoletto, chiudendo gli occhi. Quando li riaperse, l'ascensore aveva ricominciato a scendere, e Romoletto tirò un respiro di sollievo:

- Dopo tutto, il tè arriverà ghiacciato ugualmente. Purtroppo l'ascensore toccò terra nel cuore di una selvaggia foresta tropicale e Romoletto, guardando attraverso i vetri, si vide circondato da strane scimmie barbute che se lo indicavano eccitate, chiacchierando con straordinaria rapidità in una lingua incomprensibile. «Forse siamo cascati in Africa», rifletté Romoletto. Ma ecco che il cerchio delle scimmie si apriva per lasciar passare un personaggio inatteso: uno scimmione in divisa blu, montato su un enorme triciclo.