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- Una guardia! Forza, Romoletto!

E senza contare né uno né due il giovane aiuto garzone del bar Italia schiacciò un bottone dell'ascensore, il primo che gli capitò sotto le dita. L'ascensore ripartì a velocità supersonica, e solo quando fu a una certa distanza Romoletto, guardando in basso, si rese conto che il pianeta dal quale stava fuggendo non poteva essere la Terra: i suoi continenti e i suoi mari avevano un disegno del tutto diverso, e mentre dallo spazio la Terra gli era apparsa di un bell'azzurro tenero, i colori di questo globo variavano dal verde al viola.

- Sarà stato Venere, - decise Romoletto, - ma al marchese Venanzio cosa dirò?

Toccò con le nocche delle dita i bicchieri sul vassoio: erano gelati come quando era uscito dal bar. Tutto sommato, non dovevano essere trascorsi che pochi minuti.

L'ascensore, dopo aver attraversato a velocità incredibile un enorme spazio deserto, riprese a scendere. Romoletto, stavolta, non poteva aver dubbi:

- Accipicchia! - esclamò, - stiamo atterrando sulla Luna. Che ci faccio io qui?

I famosi crateri lunari si avvicinavano rapidamente. Romoletto corse con le dita della mano libera dal vassoio alla bottoniera dell'ascensore, ma:

- Alt! - si ordinò, prima di schiacciare un bottone qualsiasi, - riflettiamo un momentino.

Esaminò la fila dei bottoni. L'ultimo in basso recava in rosso la lettera «T», che vuol dire terra.

- Proviamo! - sospirò Romoletto.

Schiacciò il bottone del pianterreno e l'ascensore invertì immediatamente la rotta. Pochi minuti dopo riattraversava il cielo di Roma, il tetto del numero centotre, la tromba delle scale, e atterrava accanto alla nota portineria, dove la portinaia, ignara di quel dramma interplanetario, continuava a sonnecchiare.

Romoletto si precipitò fuori, senza nemmeno voltarsi a richiudere la porta. Stavolta le scale le fece a piedi. Bussò all'interno quattordici e ascoltò a testa bassa, senza fiatare, le proteste del marchese Venanzio:

- Be', ma dove sei stato tutto questo tempo? Ma ce lo sai che da quando vi ho ordinato queste maledette birre e questo stramaledetto tè ghiacciato sono passati ben

quattordici minuti? Al posto tuo Gagarin sarebbe già arrivato sulla Luna.

«Anche più in là», pensò Romoletto, ma non aprì bocca. E per fortuna le bevande erano ancora ghiacciate a puntino.

Eh, ne deve fare di corse, in un giorno, l'aiuto garzone del bar Italia addetto ai servizi a domicilio...

Il filobus numero 75

Una mattina il filobus numero 75, in partenza da Monteverde Vecchio per Piazza Fiume, invece di scendere verso Trastevere, prese per il Gianicolo, svoltò giù per l'Aurelia Antica e dopo pochi minuti correva tra i prati fuori Roma come una lepre in vacanza.

I viaggiatori, a quell'ora, erano quasi tutti impiegati, e leggevano il giornale, anche quelli che non lo avevano comperato, perché lo leggevano sulla spalla del vicino. Un signore, nel voltar pagina, alzò gli occhi un momento, guardò fuori e si mise a gridare:

- Fattorino, che succede? Tradimento, tradimento! Anche gli altri viaggiatori alzarono gli occhi dal giornale, e le proteste diventarono un coro tempestoso: - Ma di qui si va a Civitavecchia!

- Che fa il conducente? - È impazzito, legatelo! - Che razza di servizio!

- Sono le nove meno dieci e alle nove in punto debbo essere in Tribunale, - gridò un avvocato, - se perdo il processo faccio causa all'azienda.

Il fattorino e il conducente tentavano di respingere l'assalto, dichiarando che non ne sapevano nulla, che il filobus non ubbidiva più ai comandi e faceva di testa sua. Difatti in quel momento il filobus uscì addirittura

di strada e andò a fermarsi sulle soglie di un boschetto fresco e profumato.

- Uh, i ciclamini, - esclamò una signora, tutta giuliva.

- È proprio il momento di pensare ai ciclamini, - ribatté l'avvocato.

- Non importa, - dichiarò la signora, - arriverò tardi al ministero, avrò una lavata di capo, ma tanto è lo stesso, e giacché ci sono mi voglio cavare la voglia dei ciclamini. Saranno dieci anni che non ne colgo.

Scese dal filobus, respirando a bocca spalancata l'aria di quello strano mattino, e si mise a fare un mazzetto di ciclamini.

Visto che il filobus non voleva saperne di ripartire, uno dopo l'altro i viaggiatori scesero a sgranchirsi le gambe o a fumare una sigaretta e intanto il loro malumore scompariva come la nebbia al sole. Uno coglieva una margherita e se la infilava all'occhiello, l'altro scopriva una fragola acerba e gridava:

- L'ho trovata io. Ora ci metto il mio biglietto, e quando è matura la vengo a cogliere, e guai se non la trovo.

Difatti levò dal portafogli un biglietto da visita, lo infilò in uno stecchino e piantò lo stecchino accanto alla fragola. Sul biglietto c'era scritto: «Dottor Giulio Bollati».

Due impiegati del ministero dell'Istruzione appallottolarono i loro giornali e cominciarono una partita di calcio. E ogni volta che davano un calcio alla palla gridavano: - Al diavolo!

Insomma, non parevano più gli stessi impiegati che un momento prima volevano linciare i tranvieri. Questi, poi, si erano divisi una pagnottella col ripieno di frittata e facevano un picnic sull'erba.

- Attenzione! - gridò ad un tratto l'avvocato.

Il filobus, con uno scossone, stava ripartendo tutto solo, al piccolo trotto. Fecero appena in tempo a saltar su, e l'ultima fu la signora dei ciclamini che protestava: - Eh, ma allora non vale. Avevo appena cominciato a divertirmi.

- Che ora abbiamo fatto? - domandò qualcuno. - Uh, chissà che tardi.

E tutti si guardarono il polso. Sorpresa: gli orologi segnavano ancora le nove meno dieci. Si vede che per tutto il tempo della piccola scampagnata le lancette non avevano camminato. Era stato tempo regalato, un piccolo extra, come quando si compra una scatola di sapone in polvere e dentro c'è un giocattolo.

- Ma non può essere! - si meravigliava la signora dei ciclamini, mentre il filobus rientrava nel suo percorso e si gettava giù per via Dandolo.

Si meravigliavano tutti. E sì che avevano il giornale sotto gli occhi, e in cima al giornale la data era scritta ben chiara: 21 marzo. Il primo giorno di primavera tutto è possibile.

Il paese dei cani

C'era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.

Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino. Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c'era sempre qualcuno per la strada.

Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava nella casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli le fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per la strada c'era sempre qualcuno spaventato.