Ho udito qualcuno picchiare il pugno sulla scrivania e poi il professor Nemur ha gridato: «Ho già informato il comitato del congresso che presenteremo la relazione a Chicago».
Poi ho sentito la voce del dottor Strauss: «Ma questo è un errore, Harold. Sei settimane da oggi sono sempre un periodo troppo breve. Lui sta ancora cambiando».
E poi Nemur: «Fino ad ora abbiamo previsto esattamente l’andamento; un rapporto provvisorio è giustificato. Glielo assicuro, Jay, non c’è nulla da temere. Siamo riusciti. Tutti i risultati sono positivi. Ormai non può più accadere niente».
STRAUSS «Questo esperimento è troppo importante per noi tutti perché si possa rivelarlo prematuramente. Lei si sta arrogando il diritto…»
NEMUR «Dimentica che sono stato io ad aver avuto l’idea di questo esperimento».
STRAUSS «E lei dimentica che non è il solo con una reputazione da difendere. Se facciamo adesso asserzioni troppo avventate, tutta la nostra ipotesi verrà a trovarsi sotto il fuoco delle critiche».
NEMUR «Non temo più alcun regresso. Ho controllato e ricontrollato ogni cosa. Un rapporto provvisorio non potrà nuocere in alcun modo. Sono certo che l’esperimento non possa più fallire, ormai».
La discussione è continuata in questo modo; Strauss diceva che Nemur pensava alla cattedra di psicologia a Hallston, e Nemur sosteneva che Strauss stava approfittando delle sue ricerche psicologiche. Strauss ha detto allora che l’esperimento dipendeva in vasta misura dalle sue tecniche di psicochirurgia e dai suoi studi sulle iniezioni di enzimi, per lo meno quanto dipendeva dalle teorie di Nemur, e che un giorno migliaia di neurochirurghi in tutto il mondo si sarebbero serviti dei suoi metodi, ma a questo punto Nemur gli ha ricordato che le nuove tecniche non sarebbero mai state applicate senza la sua teoria originale.
Si sono insultati a vicenda, dandosi dell’opportunista, del cinico, del pessimista, e io ho finito con lo spaventarmi. A un tratto mi sono reso conto che non avevo più il diritto di rimanere lì davanti alla porta dello studio ad ascoltare senza che loro lo sapessero. Potevano anche essersene infischiati quando ero troppo malato di mente per capire quel che accadeva, ma ora che riuscivo a comprendere non avrebbero certo voluto ch’io ascoltassi.
Me ne sono andato senza aspettare la fine della discussione.
Faceva buio e ho camminato a lungo sforzandomi di rendermi conto della ragione per la quale ero così spaventato. Li stavo vedendo con chiarezza per la prima volta: non erano né dèi né eroi, ma soltanto due uomini che si preoccupavano di ricavare qualcosa dal loro lavoro. Eppure, se Nemur ha ragione e resperimento è riuscito, che importa? Ci sono tante cose da fare, tanti progetti da attuare.
Aspetterò fino a domani prima di domandare loro se posso condurre Miss Kinnian al cinema per festeggiare l’aumento.
26 aprile So bene che non dovrei restare all’università dopo aver finito al laboratorio, ma il vedere i giovani e le ragazze che vanno avanti e indietro con i libri sotto il braccio e l’udirli parlare delle cose che hanno imparato ai corsi mi entusiasma. Vorrei mettermi a sedere e conversare con loro sorseggiando il caffè nella tavola calda dell’università, quando si riuniscono per parlare di libri, di politica e di nuove idee. È entusiasmante sentirli discutere di poesia e di scienza e di filosofia… di Shakespeare e di Milton; di Newton e Einstein e Freud; di Piatone e Hegel e Kant e di tutti gli altri nomi che echeggiano come campane di chiesa nella mia mente.
A volte ascolto le conversazioni ai tavolini intorno a me, e fingo di essere uno studente universitario, anche se sono molto più anziano di loro. Mi porto dietro libri e ho cominciato a fumare la pipa. È sciocco, ma poiché faccio parte del laboratorio mi sembra di far parte dell’università.
Non sopporto l’idea di tornarmene a casa, in quella stanzetta solitaria.
27 aprile Ho fatto amicizia con alcuni studenti, alla tavola calda. Stavano discutendo per stabilire se Shakespeare fosse realmente l’autore delle tragedie shakespeariane. Uno dei ragazzi, quello grasso, con la faccia sudata, ha detto che fu Marlowe a scrivere tutte le opere di Shakespeare. Ma Lenny, il giovane basso di statura con gli occhiali scuri, non crede a questa storia di Marlowe e ha detto che tutti sanno come sia stato Francesco Bacone a scrivere le tragedie, perché Shakespeare non era mai stato all’università e non aveva mai posseduto la cultura di cui fa sfoggio nei suoi scritti. A questo punto, quello con il cappello da matricola ha raccontato di aver sentito dire da due tipi, al gabinetto, che le tragedie di Shakespeare, in realtà, erano state scritte da una donna.
E hanno parlato di politica e d’arte e di Dio. Non avevo mai sentito dire da nessuno che Dio potrebbe anche non esistere. Questo mi ha spaventato perché per la prima volta ho cominciato a pensare al significato della parola Dio.
Ora capisco che una delle ragioni importanti per frequentare l’università e farsi un’istruzione è la necessità di imparare che le cose nelle quali si è creduto per tutta la vita non sono vere, e che niente è come sembra essere.
Per tutto il tempo hanno seguitato a parlare e a discutere. Ho sentito l’entusiasmo ribollirmi dentro. Ecco quello che volevo fare… frequentare l’università e udire la gente parlare di cose importanti.
Ormai trascorro quasi tutto il mio tempo libero in biblioteca, leggendo e assorbendo tutto quello che posso dai libri. Non mi sto concentrando su nulla in particolare, per il momento mi limito a leggere un mucchio di narrativa… Dostoevskij, Flaubert, Dickens, Hemingway, Faulkner… tutto ciò su cui posso mettere le mani, saziando una brama che non può mai essere soddisfatta.
28 aprile In sogno, stanotte, ho udito Ma’ gridare prendendosela con Pa’ e con la maestra della scuola elementare PS 13 (la mia prima scuola precedente al mio trasferimento alla PS 222)…
«È normale! È normale! Crescerà come tutti gli altri. Meglio degli altri.» Stava cercando di graffiare la maestra, ma Pa’ la tratteneva. «Un giorno o l’altro andrà all’università. Diventerà qualcuno.» Seguitava a strillare artigliando Pa’, tanto che lui dovette lasciarla andare. «Un giorno andrà all’università e diventerà qualcuno.»
Ci trovavamo nell’ufficio del direttore e c’era molta gente con un’espressione imbarazzata, ma il vicedirettore sorrideva e voltava la testa da una parte, in modo che nessuno lo vedesse.
Il direttore, nel mio sogno, aveva una lunga barba, e galleggiava in aria qua e là per la stanza, e mi additava. «Dovrà frequentare una scuola speciale. Lo metta nella clinica e nella scuola di addestramento Warren. Qui non possiamo tenerlo.»
Pa’ stava spingendo Ma’ fuori dell’ufficio del direttore, e lei urlava e piangeva anche. Non le vedevo il viso, ma le sue grosse lagrime rosse seguitavano a cadermi addosso…
Stamane sono riuscito a ricordare il sogno, ma ora c’è qualcosa di più… i miei ricordi giungono attraverso la nebbia sino al tempo in cui avevo sei anni e accadde tutto questo. Subito prima che nascesse Norma. Vedo Ma’, una donna esile dai capelli neri, che parla troppo in fretta e agita troppo le mani. Come sempre la sua faccia è offuscata. Ha i capelli raccolti in una crocchia e la mano di lei si alza per toccarla, per lisciarla, come se dovesse accertarsi che è sempre lì. Ricordo che svolazzava sempre qua e là come un grande uccello bianco… intorno a mio padre, e lui era troppo massiccio e stanco per potersi sottrarre alle sue beccate.
Vedo Charlie, in piedi al centro della cucina, intento a trastullarsi con vivide perline colorate e anelli infilati in uno spago. Tiene alto lo spago con una mano e fa girare gli anelli in modo che ruotino in un senso e poi nell’altro mandando fulgidi lampi di colore. Trascorre lunghe ore contemplando il suo giocattolo. Non so chi glielo abbia fatto o dove sia andato a finire, ma lo vedo là in piedi, affascinato, mentre lo spago si srotola e fa girare gli anelli…