«No di certo.» Ella ha riso. «È un mondo immaginario.»
«Oh, no! Questa non è una giustificazione», ho insistito. «Anche nel mondo della fantasia devono esserci regole. Le varie parti devono essere coerenti e logiche. I film di questo genere sono una menzogna. La concatenazione degli avvenimenti è forzata perché lo sceneggiatore o il regista o qualcun altro hanno voluto qualcosa che non c’entrava. E si sente che è sbagliato.»
Lei mi ha guardato cogitabonda mentre uscivamo tra le luci notturne vivide e abbacinanti di Times Square. «Progredisci rapidamente.»
«Sono confuso. Non so più che cosa voglio.»
«Non preoccupartene», ha insistito. «Stai incominciando a vedere quello che c’è dietro la superficie delle cose.» Ha fatto un gesto con la mano, accennando a tutte le insegne al neon e allo splendore intorno a noi mentre ci dirigevamo verso la Settima Avenue. «Stai incominciando a vedere e a capire le cose. Quello che hai detto delle varie parti che devono armonizzarsi… è stata un’intuizione molto sottile.»
«Oh, andiamo. Ho la sensazione di non compiere un bel niente. Non capisco me stesso né il mio passato. Non so neppure dove si trovano i miei genitori né che aspetto hanno. Sa che quando li vedo nel balenare di un ricordo o in sogno, i loro volti sono offuscati? Voglio vederne l’espressione. Non riesco a capire quello che succede se non posso vederne il volto…»
«Charlie, calmati.» La gente si stava voltando e ci fissava. Alice mi ha preso sotto braccio e mi ha stretto a sé per tenermi a freno. «Sii paziente. Non dimenticare che stai compiendo in poche settimane ciò per cui altri impiegano una vita. Sei come una spugna gigantesca che si imbeve di conoscenza. Presto incomincerai a collegare le cose e capirai quali rapporti corrono tra tutte le diverse sfere della cultura. Tutti i livelli, Charlie, sono collegati, come piuoli di un’enorme scala. E tu salirai sempre e sempre più in alto per vedere una parte sempre più grande del mondo intorno a te.»
Mentre entravamo nel ristorante economico della Quarantacinquesima Strada e prendevamo i vassoi, ha cominciato a parlare con animazione. «La gente comune», ha detto, «non ne vede che una piccola parte. Non può cambiare molto né andare più in alto di dove si trova, ma tu sei un genio. Continuerai a salire e a salire e a vedere sempre di più. E ogni passo ti rivelerà mondi dei quali non sospettavi neppure l’esistenza».
Le persone in coda che la udivano si sono voltate a fissarmi, e soltanto quando io le ho dato di gomito per farla tacere ella si è decisa ad abbassare la voce. «Spero soltanto, in nome di Dio», ha bisbigliato, «che tu non debba soffrire».
Per qualche momento, in seguito, non ho saputo che cosa dire. Dopo aver ordinato i piatti al banco, li abbiamo portati al nostro tavolo e ci siamo messi a mangiare in silenzio. Il silenzio mi innervosiva. Conoscevo la ragione del suo timore, e pertanto ci ho scherzato su.
«Perché dovrei soffrire? Non potrebbe andarmi peggio di prima. Persino Algernon è ancora intelligente, no? Fino a quando lui è a posto, sono a cavallo anch’io.»
Alice giocherellava con il coltello, incidendo solchi circolari in una fettina di burro, e quel movimento mi ipnotizzava. «E inoltre», le ho detto, «ho udito una cosa… il professor Nemur e il dottor Strauss stavano litigando, e Nemur ha detto di essere sicuro che nulla possa andar male».
«Me lo auguro», ha risposto lei. «Non puoi immaginare quanto ho temuto che potesse accadere qualcosa. Mi sento in parte responsabile.» Mi ha veduto fissare il coltello e lo ha posato meticolosamente accanto al piatto.
«Non ci sarei mai riuscito se non fosse stato per lei», ho detto io.
Alice ha riso e questo mi ha fatto tremare. È stato il momento in cui mi sono accorto che ha gli occhi dolci e castani. Ha abbassato subito lo sguardo sulla tovaglia, arrossendo.
«Grazie, Charlie», ha mormorato, e mi ha preso la mano.
Era la prima volta che qualcuno faceva questo gesto, e mi ha reso più audace. Mi sono proteso in avanti, avvinghiandomi alla sua mano, e le labbra hanno formato le parole. «Lei mi piace moltissimo.» Dopo averlo detto, ho temuto che si mettesse a ridere, invece ha annuito, sorridendo.
«Anche tu mi piaci, Charlie.»
«Ma è qualcosa di più d’una simpatia. Io voglio dire… oh, al diavolo! Non lo so che cosa voglio dire.» Mi accorgevo di arrossire e non sapevo da che parte guardare o che cosa fare delle mani. Ho lasciato cadere la forchetta e, cercando di riprenderla, ho rovesciato il bicchiere pieno d’acqua che le si è versata sul vestito. A un tratto ero diventato di nuovo goffo e imbarazzato, e quando ho tentato di scusarmi mi sono accorto che la lingua era diventata troppo grande per la mia bocca.
«Non è nulla, Charlie», lei ha cercato di rassicurarmi. «È soltanto acqua. Non lasciarti scombussolare in questo modo.»
Sul tassi, durante il tragitto di ritorno a casa, abbiamo taciuto a lungo, e poi lei ha posato la borsetta e mi ha raddrizzato la cravatta e aggiustato il fazzoletto nel taschino della giacca. «Eri molto turbato questa sera, Charlie.»
«Mi sentivo ridicolo.»
«Ti ho sconvolto parlandone. Ti ho fatto vergognare di te stesso.»
«Non si tratta di questo. A tormentarmi è il fatto che non so esprimere quello che sento.»
«Questi sentimenti sono nuovi per te. Non tutto, deve… essere espresso con le parole.»
Mi sono spostato più vicino a lei e ho cercato di riprenderle la mano, ma Alice mi ha respinto. «No, Charlie. Non credo che ti faccia bene. Ti ho sconvolto, e questo potrebbe avere conseguenze negative.»
Quando mi ha respinto mi sono sentito goffo e ridicolo al contempo.
Ciò ha fatto sì che mi adirassi con me stesso e allora mi sono spostato dalla mia parte del sedile e ho guardato fuori del finestrino. La odiavo come non avevo mai odiato nessuno… lei, con le sue risposte disinvolte e i coccolamenti materni. Avrei voluto schiaffeggiarla, farla strisciare ai miei piedi e poi stringerla tra le braccia e baciarla.
«Charlie, mi dispiace se ti ho turbato.»
«Lasci perdere.»
«Ma devi capire quello che sta accadendo.»
«Lo capisco», ho detto, «e preferirei non parlarne».
Quando il tassi è arrivato davanti a casa sua, nella Settantasettesima Strada, non avrei potuto sentirmi più infelice.
«Sta’ a sentire», ha detto lei, «la colpa è mia. Non avrei dovuto uscire con te questa sera».
«Sì, ora me ne rendo conto.»
«Voglio dir questo, che non abbiamo il diritto di mettere la cosa su un piano personale… emotivo. Tu hai tanto da fare, lo non ho alcun diritto di entrare nella tua vita in questo momento.»
«Di questo devo preoccuparmi io, non le pare?»
«Tu credi? Non si tratta più di una tua questione privata, Charlie. Hai degli obblighi, adesso… non soltanto nei confronti del professor Nemur e del dottor Strauss, ma anche con i milioni di individui che potrebbero seguire le tue orme.»
Quando più parlava in questo modo, tanto peggio mi sentivo. Metteva in risalto la mia goffaggine, la mia ignoranza per quanto concerneva le cose giuste da dire e da fare. Agli occhi di lei ero un goffo adolescente e stava cercando di respingermi con tatto.
Mentre ci trovavamo davanti alla porta di casa sua si è voltata, mi ha sorriso e per un momento ho creduto che mi avrebbe invitato a entrare. Invece ha soltanto bisbigliato: «Buona notte, Charlie. Grazie della bellissima serata».
Avrei voluto darle il bacio della buona notte. A questo riguardo m’ero già crucciato prima. Una donna non si aspetta sempre che tu la baci? Nei romanzi che avevo letto e nei film che avevo visto era l’uomo a prendere l’iniziativa. La sera prima avevo deciso che l’avrei baciata. Ma seguitavo a pensare: e se mi respingesse?