Non volevo più sapere. Ho tenuto gli occhi distolti dal registratore di cassa mentre portavo fuori i vassoi delle paste e suddividevo i cannoli, i babà al rum, le torte.
Ma quando è entrata la donnetta con i capelli rossi, quella che mi pizzica sempre le gote e scherza dicendo che deve trovarmi un’amichetta, ho ricordato che è venuta quasi sempre mentre Donner era fuori a pranzo e quando Gimpy si trovava al banco. Gimpy mi ha mandato molte volte a consegnare le ordinazioni a casa sua.
Senza ch’io lo volessi, la mia mente ha fatto il totale degli acquisti di lei, arrivando a quattro dollari e cinquantatré centesimi. Tuttavia ho voltato la testa per non vedere che cosa avrebbe segnato Gimpy sul registratore di cassa.
Volevo sapere la verità eppure temevo quel che avrei potuto scoprire.
«Due e quarantacinque, signora Wheeler», ha detto lui.
Il trillo del registratore di cassa, il conteggio del resto, lo sbattere del cassetto. «Grazie, signora Wheeler.» Mi sono voltato giusto in tempo per vederlo mettersi la mano in tasca e ho udito il tintinnio soffocato delle monete.
Quante volte si è servito di me come di un intermediario per consegnarle i pacchi, facendole pagare di meno, per poter poi in seguito dividere la differenza? Ha forse approfittato di me in tutti questi anni perché lo aiutassi a rubare?
Non riuscivo a distogliere gli occhi da Gimpy mentre zoppicava dietro il banco e il sudore gli scorreva sotto il berretto di carta. Sembrava animato e di buon umore, ma a un tratto, alzando gli occhi, ha sorpreso il mio sguardo, e allora si è accigliato e ha voltato le spalle.
Volevo picchiarlo. Volevo andare dietro il banco e rompergli la faccia. Non ricordo di aver mai odiato nessuno prima d’ora… ma stamane ho odiato Gimpy con tutta l’anima
Sfogarmi scrivendo tutto questo nel silenzio della mia stanza non è servito a nulla. Ogni volta, pensando che Gimpy deruba il signor Donner, mi vien voglia di fracassare qualcosa. Per fortuna non credo di essere capace di violenze. Credo di non aver mai picchiato nessuno in vita mia.
Ma devo ancora decidere il da farsi. Dire a Donner che il suo fidato dipendente lo ha derubato in tutti questi anni? Gimpy negherebbe e io non potrei mai provare che è vero. E come la prenderebbe il signor Donner? Non so che cosa fare.
9 maggio Non riesco a dormire. Questa faccenda mi ha sconvolto. Devo troppo al signor Donner per poter stare a guardare mentre lo derubano così. Sarei colpevole quanto Gimpy, se tacessi. Eppure spetta proprio a me denunciarlo? La cosa che mi esaspera di più è che quando mi mandava a fare le consegne si serviva di me per derubare Donner. Non sapendo niente, io non c’entravo… non avevo colpa. Ma ora che so, con il mio silenzio sono colpevole quanto lui.
Eppure Gimpy è un mio collega. Ha tre figli. Che cosa farà se Donner lo licenzia? Potrebbe non riuscire a trovare un altro posto… tanto più che zoppica.
Ma devo preoccuparmene io?
Qual è la cosa giusta da fare? È un’ironia che la mia intelligenza non mi aiuti a risolvere un problema come questo.
10 maggio Ne ho parlato al professor Nemur e lui insiste nel dire che io sono un innocente spettatore e che non ho alcuna ragione di rimanere coinvolto in quella che sarebbe una situazione spiacevole. Il fatto che Gimpy si è servito di me come di un intermediano non sembra preoccuparlo affatto. Se non mi rendevo conto di quel che stava accadendo, dice, la cosa non riveste alcuna importanza. Non sono più colpevole di quanto lo sia il coltello che colpisce o l’automobile che investe.
«Ma io non sono un oggetto inanimato», ho sostenuto. «Sono una persona.»
Per un momento è sembrato confuso, poi ha riso. «Sicuro, Charlie. Ma io non mi riferivo al presente. Parlavo dei tempi prima dell’operazione.»
Presuntuoso, pomposo… mi è venuto voglia di picchiare anche lui. «Ero una creatura umana anche prima dell’intervento. Nel caso che se ne sia dimenticato…»
«Sì, naturale, Charlie. Non fraintendermi. Ma era diverso…» E poi si è ricordato che doveva controllare alcune tabelle in laboratorio.
Il dottor Strauss non parla molto durante le nostre sedute psicoterapiche, ma oggi, quando ho accennato alla cosa, ha detto che avevo l’obbligo morale di dirlo al signor Donner. Tuttavia, quanto più ci pensavo, tanto meno semplice diventava la cosa. Avevo bisogno di qualcun altro per spezzare il nodo gordiano, e la sola che mi è venuta in mente è stata Alice. Infine, alle dieci e mezzo, non ho più saputo resistere. Ho formato il numero tre volte, interrompendomi sempre a metà, ma al quarto tentativo sono riuscito a rimanere all’apparecchio finché non ho udito la sua voce.
A tutta prima ella sembrava ritenere che non avrebbe dovuto incontrarsi con me, ma l’ho supplicata di concedermi un appuntamento al ristorante dove abbiamo cenato insieme. «Io la rispetto… lei mi ha sempre dato buoni consigli.» E poiché esitava ancora, ho insistito. «Deve aiutarmi. È in parte responsabile. Lo ha detto lei stessa. Se non fosse stato per lei non mi sarei mai trovato in questa situazione; ora non può liberarsi di me con una scrollata di spalle.»
Deve aver intuito quanto la cosa era urgente, perché ha accettato di incontrarsi con me. Ho riattaccato e ho fissato il telefono. Perché era tanto importante per me sapere che cosa pensava lei, quello che lei provava? Da oltre un anno, al Centro per adulti, la sola cosa che avesse rivestito importanza era stata farle piacere. Per questo, forse, avevo accettato di sottopormi all’operazione?
Ho camminato su e giù davanti al ristorante finché il poliziotto ha cominciato ad adocchiarmi insospettito. Allora sono entrato e ho preso un caffè. Per fortuna il tavolo al quale ci eravamo seduti la prima volta era libero; lei avrebbe pensato di venirmi a cercare lì.
Mi ha veduto e mi ha salutato con la mano, ma si è soffermata al banco a prendere un caffè prima di avvicinarsi al tavolo. Sorrideva e io ho capito perché: perché avevo scelto lo stesso tavolo. Un gesto scioccamente romantico.
«So che è tardi», mi sono scusato, «ma giuro che stavo impazzendo. Dovevo parlarle».
Alice ha sorseggiato il caffè ascoltando in silenzio mentre spiegavo come avevo scoperto le frodi di Gimpy e parlavo delle mie reazioni e dei consigli contrastanti datimi al laboratorio. Quando ho terminato, lei si è appoggiata alla spalliera della sedia e ha scosso la testa.
«Charlie, tu mi stupisci. Sotto certi aspetti hai fatto progressi enormi, eppure, quando si tratta di prendere una decisione, sei ancora un bambino. Io non posso decidere in vece tua, Charlie. La soluzione non può essere trovata nei libri… e neppure rivolgendosi ad altri. A meno che tu non voglia rimanere un bambino per tutta la vita. La soluzione devi trovarla dentro di te… devi sentire qual è la cosa giusta da farsi. Charlie, devi imparare ad avere fiducia in te stesso.»
A tutta prima la sua predica mi ha irritato, ma poi, improvvisamente, ha incominciato a sembrarmi sensata. «Vuol dire che devo essere io a decidere?»
Alice ha annuito.
«In effetti», ho detto, «ora che ci penso, credo di avere già deciso qualcosa! Secondo me, tanto Nemur quanto Strauss hanno torto!»
Lei mi stava osservando attentamente, eccitata. «Ti sta accadendo qualcosa, Charlie. Se soltanto potessi vedere la tua faccia.»
«Ha ragione, accidenti, qualcosa succede! C’era una nuvola di fumo sospesa davanti ai miei occhi, e con un soffio lei l’ha dispersa. Un’idea semplice. Avere fiducia in me stesso. E non ci avevo mai pensato.»