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Gli argomenti che mi interessano di più in questo momento sono l’etimologia delle lingue antiche, le opere più recenti sul calcolo delle variazioni e la storia degli indù. È stupefacente il modo con cui le cose, in apparenza senza alcuna relazione, si collegano l’una con l’altra. Mi sono portato su un altro livello e ora i fiumi delle diverse discipline sembrano essere più vicini l’uno all’altro, come se scaturissero da un’unica sorgente.

È strano che, quando mi trovo alla tavola calda dell’università e odo gli studenti ragionare di storia, di politica o di religione, tutto quel che dicono mi sembri così infantile.

Non mi dà più alcun piacere discutere le idee a un livello così elementare. La gente si offende quando le si dimostra che non si avvicina neppure alle complessità del problema… e non sa che cosa esista al di sotto delle increspature superficiali. Ma la situazione è altrettanto disastrosa a un livello superiore, e io ho rinunciato a ogni tentativo di discutere queste cose con i professori della Beekman.

Burt mi ha presentato a un professore di economia, alla tavola calda dell’università, un uomo molto noto per le sue opere sui fattori economici che influenzano i tassi d’interesse. Da tempo desideravo parlare con un economista di alcuni concetti sui quali m’ero soffermato nel corso delle mie letture. Gli aspetti morali del blocco militare impiegato come arma in tempo di pace mi avevano lasciato interdetto. Gli ho domandato che cosa pensasse della proposta di alcuni senatori di ricorrere a tattiche come il blocco navale e le sanzioni economiche impiegate nella prima e nella seconda guerra mondiale contro alcune delle più piccole nazioni che attualmente ci sono ostili.

Ha ascoltato in silenzio, fissando il vuoto, e io ho supposto che stesse riordinando i suoi pensieri per rispondermi, ma pochi minuti dopo si è schiarito la voce e ha scosso la testa. La questione, ha spiegato in tono di scusa, non rientrava nella sua specializzazione; egli si occupava dei tassi d’interesse e non aveva prestato molta attenzione agli aspetti militari dell’economia. Mi ha suggerito di parlare con il dottor Wessey, che un tempo pubblicò uno studio sugli accordi commerciali in tempo di guerra, durante la seconda guerra mondiale. Forse lui sarebbe stato in grado di darmi delucidazioni.

Prima che potessi aprir bocca mi ha afferrato la mano e me l’ha stretta. Era lieto di avermi conosciuto, ma doveva riordinare alcuni appunti per una conferenza. E se n’è andato.

La stessa cosa è accaduta quando ho cercato di parlare di Chaucer con un professore di letteratura americana, quando a un orientalista ho rivolto domande sugli isolani delle Trobriand e quando con uno psicologo ho cercato di mettere a fuoco i problemi della disoccupazione causata dall’automazione; lo psicologo era specializzato in sondaggi sull’opinione pubblica per quanto concerne il comportamento dell’adolescenza. Tutti costoro hanno trovato pretesti per andarsene, timorosi di rivelare la ristrettezza della loro cultura.

Come mi sembrano diversi, adesso. E quanto sono stato sciocco ad aver pensato che i professori fossero giganti intellettuali. Sono esseri umani… e temono che il resto del mondo se ne accorga. E anche Alice è un essere umano, una donna, non una dea, e domani sera la condurrò al concerto.

17 maggio. È quasi il mattino e non riesco ad addormentarmi. Devo capire che cosa mi è accaduto ieri sera al concerto.

La serata era cominciata abbastanza bene. Il Mall al Central Park si era riempito abbastanza presto e Alice e io avevamo dovuto zigzagare tra le coppie sdraiate sull’erba. Finalmente, molto lontano dal sentiero, abbiamo trovato un albero libero, fuori dell’alone di luce dei lampioni, ove il solo indizio della presenza di altre coppiette consisteva nelle risatine femminili di protesta e nel bagliore delle sigarette accese.

«Qui andrà benissimo», ha detto lei. «Non c’è nessun motivo di mettersi proprio accanto all’orchestra.»

«Che cosa stanno suonando, adesso?» ho domandato.

«La mer di Debussy. Ti piace?»

Mi sono sdraiato accanto a lei. «Non m’intendo molto di questo genere di musica. Devo rifletterci.»

«Non riflettere», ha bisbigliato Alice. «Sentila. Lascia che ti passi sopra come il mare senza cercare di capirla.» Si è distesa supina sull’erba e ha voltato la faccia nella direzione della musica.

Non avevo modo di sapere che cosa si aspettasse da me. Tutto ciò era ben lungi dalle linee nette della soluzione dei problemi e dell’acquisizione sistematica delle conoscenze. Seguitavo a dirmi che il sudore sul palmo delle mani, la tensione nel torace, il desiderio di abbracciarla erano semplicemente reazioni chimiche. Seguivo addirittura l’andamento della sequenza stimolo-reazione che causava il mio nervosismo e la mia eccitazione. Eppure tutto rimaneva confuso e incerto. Dovevo abbracciarla o no? Si aspettava che io lo facessi? Si sarebbe adirata? Capivo che mi comportavo ancora come un adolescente e questo mi esasperava.

«Senta», le ho detto con voce soffocata, «perché non si mette più comoda? Si appoggi alla mia spalla». Lei ha lasciato che l’allacciassi con il braccio ma non mi ha guardato. Sembrava troppo assorta nella musica per rendersi conto di quel che facevo. Desiderava che la stringessi in quel modo o si limitava a tollerarlo? Mentre facevo scivolare il braccio in basso, fino alla vita di lei, l’ho sentita tremare, ma continuava a guardare dalla parte dell’orchestra. Fingeva di concentrarsi sulla musica per non dover reagire ai miei movimenti. Voleva ignorare quello che stava accadendo. Fino a quando distoglieva lo sguardo da me e ascoltava, poteva fingere che la mia vicinanza, il mio braccio intorno a lei, fossero cose lontane dalla sua consapevolezza e dal suo consenso. Voleva ch’io facessi all’amore con il suo corpo mentre ella rivolgeva i pensieri a cose più elevate. Mi sporsi bruscamente e la costrinsi a voltare il mento. «Perché non mi guarda? Sta fingendo ch’io non esista?»

«No, Charlie», ha bisbigliato. «sto fingendo di essere io a non esistere».

Quando le ho toccato la spalla si è irrigidita e ha tremato, ma io l’ho tratta verso di me. Poi è accaduto. È cominciato come un ronzio cavernoso nelle orecchie… una sega elettrica… lontana. Quindi il gelo: braccia e gambe con la pelle d’oca e le dita che diventavano insensibili. A un tratto ho avuto la sensazione di essere spiato.

Un rapido mutamento di percezione. Ho veduto, da qualche punto nell’oscurità dietro un albero, noi due sdraiati, l’uno nelle braccia dell’altra.

Ho alzato gli occhi sorprendendo un ragazzo di quindici o sedici anni, accovacciato lì accanto. «Ehi!» ho urlato. Mentre si alzava ho veduto che aveva i calzoni sbottonati ed era scoperto.

«Che cosa c’è?» ha ansimato Alice.

Sono balzato in piedi e il ragazzo è scomparso nell’oscurità. «Lo ha visto?»

«No», ha detto lei lisciandosi nervosamente la gonna. «Non ho visto nessuno.»

«In piedi proprio lì. A guardarci. Così vicino da toccarla.»

«Charlie, dove stai andando?»

«Non può essersi allontanato di molto.»

«Lascialo stare, Charlie. Non ha importanza.»

Ma aveva importanza per me. Mi sono messo a correre nell’oscurità, incespicando contro coppiette spaventate, ma non c’era modo di stabilire dove fosse andato.

Quanto più pensavo a lui, tanto più intensa diventava la sensazione di nausea che precede uno svenimento. Sperduto e solo in un gran deserto. E poi sono riuscito a farmi forza e ho ritrovato la strada fino al punto in cui sedeva Alice.

«Lo hai trovato?»

«No, ma c’era. L’ho visto.»

Lei mi ha guardato con un’aria strana. «Ti senti bene?»

«Starò meglio… tra un momento… È soltanto quel maledetto ronzio nelle orecchie.»