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«Forse faremmo bene ad andare.»

Per tutto il tragitto di ritorno fino a casa sua ho pensato che il ragazzo era rimasto accovacciato lì, nell’oscurità, e che per un attimo io ero riuscito a intravedere quel che lui vedeva… noi due sdraiati e abbracciati.

«Ti piacerebbe entrare? Potrei farti un caffè.»

Lo desideravo, ma qualcosa mi avvertiva di non farlo. «È meglio di no. Ho molto lavoro da sbrigare questa sera.»

«Charlie, è stato qualcosa che ho detto o fatto?»

«No, naturalmente. Soltanto, quel ragazzo che ci spiava mi ha turbato.»

Era in piedi, vicina a me, in attesa che la baciassi. Le ho passato il braccio intorno alla vita, ma è accaduto di nuovo. Se non me ne fossi andato subito sarei svenuto.

«Charlie, hai l’aria di non star bene.»

«Lo ha veduto, Alice? La verità…»

Lei ha scosso la testa. «No. Era troppo buio. Ma sono sicura…»

«Devo andare. Le telefonerò.» E prima che potesse fermarmi mi sono scostato da lei. Dovevo uscire da quella casa prima che tutto franasse.

Ripensandoci, ora, sono sicuro che è stata un’allucinazione. Il dottor Strauss ritiene ch’io sia ancora in quella fase dell’adolescenza in cui l’essere vicino a una donna o il pensare al sesso scatenano ansia, panico, persino allucinazioni. È convinto che il mio rapido sviluppo intellettuale mi abbia ingannevolmente indotto a credere di poter avere una vita emotiva normalissima.

E invece devo accettare la realtà: i timori e i blocchi causati da queste situazioni sessuali rivelano che emotivamente io sono ancora un adolescente… sessualmente ritardato. Vuol dire, suppongo, che non sono pronto ad avere rapporti con una donna come Alice Kinnian.

Non ancora.

20 maggio Ho perduto il posto alla panetteria. So ch’era stupido da parte mia avvinghiarmi al passato, ma esisteva qualcosa in quel posto, con le sue pareti piastrellate in bianco e rese rossicce dal calore del forno… Era come una casa per me.

Che cosa ho tatto per indurii a odiarmi tanto?

Non posso incolpare Donner. Egli deve pensare ai suoi affari e agli altri dipendenti. Eppure mi era più vicino di un padre.

Mi ha chiamato nel suo ufficio, ha tolto le fatture e i conti dall’unica sedia accanto alla scrivania con il coperchio avvolgibile e senza alzare gli occhi e guardarmi ha detto: «Volevo parlarti. Questo è un momento buono quanto un altro».

Ora mi sembra sciocco, ma mentre sedevo lì, fissandolo, basso di statura, grassoccio, con i radi baffi castano chiari che gli spiovevano comicamente sul labbro superiore, è stato come se i miei due io, il Charlie di un tempo e quello nuovo, sedessero su quella sedia, timorosi di ciò che l’anziano signor Donner stava per dire.

«Charlie, tuo zio Herman era un mio buon amico. Ho mantenuto la promessa che gli feci di tenerti qui a lavorare, andassero male o bene le cose, in modo che non dovessero mai mancarti un dollaro in tasca e un letto in cui dormire, e non finissi di nuovo in quella clinica.»

«La panetteria è la mia casa…»

«E ti ho trattato come il mio figliolo che ha dato la vita per la patria. E quando Herman morì, quanti anni avevi tu allora? diciassette? sembravi piuttosto un bambino di sei anni, giurai a me stesso… mi dissi, Arthur Donner, finché avrai la panetteria e del lavoro ti occuperai di Charlie. Egli avrà un posto in cui lavorare, un letto in cui dormire e un pezzo di pane in bocca. Quando volevano rinchiuderti in quella clinica Warren dissi loro che avresti lavorato alle mie dipendenze e che io avrei badato a te. Non passasti neppure una notte in quel posto. Ti trovai una stanza e mi occupai di te. Ebbene, l’ho mantenuta o no quella promessa solenne?»

Ho annuito ma mi sono accorto, da come piegava e tornava ad aprire le iatture, che si trovava in difficoltà. E per quanto non volessi saperlo… lo sapevo. «Ho fatto del mio meglio per comportarmi bene. Ho lavorato sodo…»

«Lo so, Charlie. Non ho niente da rimproverarti per quanto concerne il lavoro. Ma ti è accaduto qualcosa e non capisco che cosa significhi. E non soltanto io. Ne hanno parlato tutti. Sono venuti qui una dozzina di volte in queste ultime settimane. Sono tutti turbati. Charlie, è necessario che ti lasci andare.»

Ho cercato di interromperlo, ma lui ha scosso la testa.

«Ieri sera è venuta da me una delegazione, Charlie. Io devo mandare avanti la baracca.»

Si stava fissando le mani, voltava da una parte e dall’altra un foglio di carta, come se sperasse di trovarvi qualcosa che non vi era stato prima. «Mi dispiace, Charlie.»

«Ma dove andrò?»

Ha alzato gli occhi e mi ha sbirciato per la prima volta da quando ero entrato in quel cubicolo di ufficio. «Sai bene quanto me che non hai più bisogno di lavorare qui.»

«Signor Donner, non ho mai lavorato in nessun altro posto.»

«Affrontiamo la realtà. Tu non sei più il Charlie che venne qui diciassette anni fa… non sei neppure lo stesso Charlie di quattro mesi fa. Non hai parlato della faccenda. È affar tuo. Forse si tratta di una specie di miracolo… chi lo sa? Ma ti sei trasformato in un giovane intelligentissimo. E far funzionare l’impastatrice e consegnare pacchi non è lavoro per un giovane molto intelligente.»

Aveva ragione, naturalmente, eppure qualcosa dentro di me voleva convincerlo a cambiare idea.

«Lei deve lasciarmi restare, signor Donner. Mi dia un’altra opportunità. Ha detto lei stesso di aver promesso allo zio Herman che avrei avuto lavoro qui fino a quando ne avessi avuto bisogno. Bene, ne ho ancora bisogno, signor Donner.»

«No, non è vero, Charlie. Se fosse così, allora direi agli altri che non m’importa un corno delle loro delegazioni e petizioni e mi batterei per te contro tutti. Ma così come stanno le cose adesso, hanno tutti una paura da morire di te. Io devo pensare anche alla mia famiglia.»

«E se cambiassero idea? Mi permetta di convincerli.» Gli stavo rendendo la cosa più difficile di quanto si fosse aspettato. Sapevo che avrei dovuto tacere ma non riuscivo a dominarmi. «Farò loro capire come stanno le cose», ho supplicato.

«E va bene», egli ha sospirato infine. «Fa’ pure, prova. Ma riuscirai soltanto a fare del male a te stesso.»

Mentre uscivo dal suo ufficio, Frank Reilly e Joe Carp mi sono passati accanto, e io ho capito che quanto Donner mi aveva detto era vero. Avermi tra i piedi a osservarli era troppo per loro. Li mettevo tutti a disagio.

Frank aveva appena sollevato un vassoio di panini e tanto lui quanto Joe si sono voltati quando li ho chiamati. «Senti, Charlie, ho da fare. Magari più tardi…»

«No», ho insistito. «Ora… subito. Mi avete evitato tutti e due. Perché?»

Frank, il più loquace, il conquistatore di donne, quello che sa sempre arrangiarsi, mi ha studiato per un momento, poi ha posato il vassoio sulla tavola. «Perché? Te lo dico io perché. Perché tutto a un tratto sei diventato un pezzo grosso, un so-tutto-io, un cervellone! Ormai sei un vero e proprio genio, un intellettuale. Sempre con un libro… sempre con tutte le risposte pronte. Be’, ti dirò io una cosa. Credi di essere migliore di tutti noi qui dentro, eh? Okay, allora vattene in qualche altro posto.»

«Ma che cosa vi ho fatto?»

«Che cosa ci ha fatto? Lo hai sentito. Joe? Te lo dico io che cosa ci hai fatto, caro il mio signor Gordon. Ti sei fatto avanti con le tue idee e i tuoi suggerimenti e hai fatto passare tutti noi per un branco di idioti. Ma stammi bene a sentire: per me tu sei ancora un deficiente. Forse io non capisco alcune di quelle parolone o i nomi dei libri, ma valgo quanto te… e anche di più.»

«Sicuro.» Joe ha annuito, voltandosi per sottolineare la cosa con Gimpy ch’era appena sopraggiunto alle sue spalle.

«Non vi chiedo di essermi amici», ho detto io. «né di avere qualcosa a che fare con me. Lasciate soltanto che conservi il posto. Il signor Donner dice che dipende da voi».