«Ha preso dieci! Ha preso dieci!»
«No!» strilla Norma. «Non te. Non dirglielo. Il voto è mio e glielo dico io.»
«Ehi, un momento, signorinetta.» Matt posa il giornale e si rivolge a lei con severità. «Non è questo il modo di parlare a tuo fratello.»
«Non aveva il diritto di dirlo!»
«Lascia stare.» Matt la fissa iroso al di sopra del dito ammonitore. «Non voleva farti un dispetto e tu non devi mai alzare la voce con lui in questa maniera.»
Norma si rivolge alla madre per averne l’appoggio. «Ho preso un dieci… il più bel voto della classe. Ora posso avere un cane? Me lo avevi promesso se avessi preso un bel voto all’esame. E mi sono meritata un dieci. Voglio un cane marrone a chiazze bianche. E lo chiamerò Napoleone perché questa è la domanda alla quale ho risposto meglio all’esame. Napoleone rimase sconfitto nella battaglia di Waterloo.»
Rose annuisce. «Va’ sulla veranda a giocare con Charlie. Sta aspettando da un’ora che tu tornassi da scuola.»
«Non voglio giocare con lui.»
«Va’ sulla veranda», dice Matt.
Norma guarda suo padre, poi Charlie. «Non sono obbligata. La mamma dice che non devo giocare con lui se non voglio.»
«Ehi, signorinetta», Matt si alza e va verso la figlia, «chiedi subito scusa a tuo fratello».
«Non sono obbligata», grida Norma correndo dietro la sedia di sua madre. «È come un bambino. Non sa giocare a monopoli né agli scacchi né a niente… confonde tutto. Non voglio più giocare con lui.»
«Allora va’ in camera tua!»
«Adesso posso averlo un cane, mamma?»
Matt batte il pugno sul tavolo. «Non ci sarà nessun cane in casa mia fino a quando assumerai questo atteggiamento, signorinetta.»
«Le ho promesso un cane se avesse avuto bei voti a scuola…»
«Un cane marrone a chiazze bianche!» aggiunge Norma.
Matt addita Charlie in piedi accanto alla parete. «Hai dimenticato di aver detto a tuo figlio che non potevamo tenere un cane perché non c’era posto e nessuno poteva badargli? Te ne ricordi? Quando chiese un cane? Adesso vorresti rimangiarti quello che gli hai detto?»
«Ma al mio cane posso badarci io», insiste Norma. «Gli darò da mangiare, lo laverò e lo porterò fuori…»
Charlie, che è rimasto in piedi accanto al tavolo, giocherellando con il grosso bottone rosso all’estremità dello spago, fa sentire a un tratto la sua voce.
«L’aiuterò io a badare al cane! L’aiuterò a dargli da mangiare e a spazzolarlo e non lascerò che gli altri cani lo mordano!»
Ma prima che Matt o Rose possano rispondere. Norma strilla: «No! Il cane sarà mio. Soltanto mio!»
Matt annuisce. «Vedi?»
Rose siede accanto a Norma e le accarezza le trecce per calmarla. «Ma le cose dobbiamo dividerle con gli altri, cara. Charlie può aiutarti ad averne cura.»
«No! È soltanto mio!… Sono stata io a prendere dieci in storia… non lui! Lui non prende mai bei voti come me. Perché dovrebbe aiutarmi a "badare al cane? E poi il cane gli si affezionerà più che a me e sarà più suo che mio. No! se non posso averlo tutto per me non lo voglio!»
«Allora è deciso», dice Matt, riprendendo il giornale e rimettendosi sulla sedia. «Niente cane.»
A un tratto Norma salta giù dal divano e afferra il compito di storia che soltanto pochi minuti prima aveva portato a casa con tanto entusiasmo. Lo strappa e getta i pezzi di carta sulla faccia stupefatta di Charlie. «Ti odio! Ti odio!»
«Norma, finiscila immediatamente!» Rose l’afferra ma, contorcendosi, lei riesce a sottrarsi alla stretta.
«E odio anche la scuola! La odio! Smetterò di studiare e diventerò una scema come lui. Dimenticherò tutto quello che ho imparato e così sarò proprio come lui.» Corre fuori della stanza, strillando: «Incomincia già a succedermi. Sto dimenticando tutto… Sto dimenticando… non ricordo più niente di quello che ho imparato!»
Rose, atterrita, le corre dietro. Matt rimane seduto fissando il giornale che ha in grembo. Charlie, spaventato da quegli isterismi e dalle grida, si fa piccolo su una sedia, piagnucolando sommessamente. Che cosa ha fatto di male? E sentendo il bagnato nei calzoni e il rivoletto che gli scende giù per la gamba, rimane lì in attesa dello schiaffo; sa che gli toccherà non appena tornerà sua madre.
La scena svanisce, ma a partire da quel momento Norma trascorse tutto il suo tempo libero con le amiche, oppure giocò sola in camera sua. Teneva chiusa la porta della sua stanza e a me era proibito entrare senza il suo permesso.
Ricordo di aver udito una volta Norma e una delle sue amiche giocare nella stanza di lei. Norma gridò: «Non è il mio vero fratello! È soltanto un ragazzo che abbiamo preso in casa perché ci faceva compassione. La mamma me lo ha detto, e ha soggiunto che ormai posso rivelare a tutti come non sia il mio vero fratello».
Vorrei che questo ricordo fosse una fotografia, per poterla strappare e gettargliela in faccia. Vorrei poterle parlare al di là degli anni e dirle che non ebbi mai l’intenzione di impedirle di avere il cane. Avrebbe potuto tenerlo tutto per sé. e io non gli avrei dato da mangiare né l’avrei spazzolato e neppure ci avrei giocato… e non mi sarei mai sognato di fare in modo che volesse più bene a me che a lei. Volevo soltanto che Norma continuasse a giocare con me come aveva sempre fatto. Non avevo l’intenzione di fare nulla che potesse addolorarla.
6 giugno Oggi ho avuto il primo vero litigio con Alice. La colpa è mia. Volevo vederla. Spesso, dopo un ricordo o un sogno che mi turbano, parlare con lei, o semplicemente esserle vicino, mi rasserena. Ma è stato un errore passare a prenderla al Centro.
Dopo l’operazione non ero più stato al Centro per adulti ritardati e il pensiero di rivedere quel luogo mi eccitava. Si trova nella Ventitreesima Strada, a est della Quinta Avenue, in una vecchia scuola che è stata impiegata in questi ultimi cinque anni dalla clinica dell’università Beekman come centro di istruzione sperimentale… corsi speciali per i tardi di mente. La targa sulla porta, incorniciata dall’antico cancello con le punte di ferro, una targa di ottone lucente, annuncia: Corsi di istruzione organizzati dall’università Beekman.
La lezione di Alice terminava alle otto, ma io volevo rivedere l’aula dove, fino a poco tempo fa, faticavo soltanto per imparare a leggere e a scrivere e a contare il resto di un dollaro.
Sono entrato, sono salito furtivamente di sopra fino alla porta e poi, senza farmi vedere, ho guardato dentro. Alice sedeva alla cattedra e su una sedia accanto a lei si trovava una donna dalla faccia smunta che non ho riconosciuta. Era accigliata, con un’espressione di aperto smarrimento, e io mi sono domandato che cosa cercasse di spiegarle Alice.
Accanto alla lavagna c’era Mike Dorni sulla sedia a rotelle e lì, nel solito banco in prima fila, Lester Braun che, a detta di Alice, era il più intelligente del gruppo. Lester aveva imparato con facilità ciò che a me era costato molta fatica, ma veniva alle lezioni soltanto quando ne aveva voglia oppure si assentava per guadagnare qualcosa tirando a cera pavimenti. Suppongo che se ci avesse tenuto molto, se la cosa fosse stata importante per lui come lo era per me, lo avrebbero scelto per questo esperimento. C’erano anche facce nuove, persone che non conoscevo.
Infine ho trovato il coraggio di entrare.
«È Charlie!» ha detto Mike voltando la sedia a rotelle.
L’ho salutato con la mano.
Bernice, la bionda graziosa dagli occhi vacui, mi ha guardato e mi ha rivolto uno smorto sorriso. «Dove sei stato, Charlie? Che bel vestito.»
Gli altri che si ricordavano di me mi hanno salutato a cenni e io ho risposto.
A un tratto mi sono accorto dall’espressione di Alice ch’ella era irritata.
«Sono quasi le otto», ha annunciato. «È giunto il momento di rimettere tutto a posto.»