Credo di averla afferrata per una spalla… non ne sono sicuro, ma ecco che stava gridando, e sono tornato bruscamente alla realtà con la sensazione di pericolo. Avrei voluto dirle che non avevo cattive intenzioni… non sarei mai stato capace di fare del male a lei o a chiunque altro. «Per piacere, non gridare!»
Ma stava strillando e ho udito uno scalpiccio di passi in corsa sul viale buio. Era una situazione, questa, che nessuno avrebbe capito. Sono fuggito nell’oscurità per trovare un’uscita dal parco, zigzagando, attraversando un viale e seguendone un altro. Non conoscevo il parco e a un tratto ho urtato violentemente contro qualcosa che mi ha rigettato indietro. Una recinzione di rete metallica… un vicolo cieco. Poi ho veduto le altalene e gli scivoli e ho capito ch’era un campo di giochi per fanciulli, chiuso durante la notte. Ho seguito la recinzione e ho continuato a procedere, quasi correndo, incespicando contro radici contorte. Arrivato al lago, che segue una curva intorno al campo di giochi, sono tornato indietro, ho trovato un altro viale, ho attraversato il ponticello e poi sono passato intorno e sotto ad esso. Nessuna via d’uscita.
«Che cosa c’è? Che cosa è accaduto, signora?»
«Un maniaco?»
«È sana e salva?»
«Da che parte è andato?»
Avevo fatto un giro vizioso tornando al punto dal quale ero fuggito. Sono scivolato dietro l’enorme affioramento di una roccia e a uno schermo di rovi e mi sono lasciato cadere bocconi.
«Chiamate un poliziotto. Non c’è mai un agente quando se ne ha bisogno.»
«Che cosa è successo?»
«Un degenerato ha tentato di violentarla.»
«Ehi, c’è un tale laggiù che lo sta inseguendo. Eccolo là!»
«Avanti! Prendiamo il bastardo prima che esca dal parco!»
«Attenzione! Ha un coltello e una pistola…»
Era ovvio che le grida avevano stanato i vagabondi notturni, poiché l’avvertimento «eccolo là!» fu riecheggiato alle mie spalle e guardando da dietro la roccia vidi un uomo in fuga inseguito lungo il viale illuminato dai lampioni e poi nelle tenebre. Alcuni secondi dopo un altro individuo è passato davanti alla roccia, scomparendo nell’ombra. Ho immaginato me stesso raggiunto da questa folla infuriata e percosso e fatto a pezzi. Lo meritavo. Lo avevo quasi voluto.
Mi sono alzato, mi sono ripulito il vestito dalle foglie e dal terriccio e ho seguito adagio il viale nella direzione dalla quale ero venuto. Mi aspettavo di essere da un momento all’altro afferrato alle spalle e gettato giù a terra nelle tenebre, ma ben presto ho veduto le vivide luci della Cinquantanovesima Strada e della Quinta Avenue e sono uscito dal parco.
Ripensandoci, ora, nella sicurezza della mia stanza, mi sento scosso dalla rude esperienza che mi è toccata. Ricordare l’aspetto che aveva Ma’ prima di mettere al mondo mia sorella è spaventoso. Ma ancor più spaventosa è la consapevolezza che volevo essere raggiunto e picchiato. Perché volevo essere punito? Ombre emerse dal passato mi si avvinghiano alle gambe e mi trascinano giù. Apro la bocca per urlare ma non ho voce. Mi tremano le mani, mi sento tutto gelido e ho un ronzio lontano nelle orecchie.
13° RAPPORTO SUI PROGRESSI
10 giugno Siamo su uno strato-jet sul punto di decollare per Chicago. Devo questo rapporto sui progressi a Burt, il quale ha avuto un’idea luminosa: avrei potuto dettarlo servendomi di un registratore a transistori e farlo poi battere a macchina da una dattilografa a Chicago. L’idea piace a Nemur. In effetti, vuole che mi serva del registratore fino all’ultimo momento. Pensa che il rapporto sarà più completo se potranno far sentire il nastro appena registrato al termine della riunione.
E così eccomi qui, seduto tutto solo nel nostro scompartimento privato di un jet diretto a Chicago, cercando di abituarmi a pensare a voce alta e al suono della mia voce. Suppongo che la dattilografa saprà sfrondare quel che ho dettato di tutti gli uhm, gli ehm e gli ah, e farlo sembrare naturale sulla carta (non posso evitare la paralisi che mi prende se penso che le parole pronunciate da me in questo momento verranno ascoltate da centinaia di persone).
Ho la mente vacua. A questo punto i miei sentimenti contano più d’ogni altra cosa.
L’idea di volare mi atterrisce.
A quanto posso saperne, prima dell’operazione non mi rendevo realmente conto di quello che sono gli aerei. Non collegai mai i primi piani di aerei al cinema e alla televisione con gli apparecchi che vedevo filare in alto nel cielo. Ora che stiamo per decollare, riesco a pensare soltanto a quel che potrebbe accadere se precipitassimo. Una sensazione di gelo e la riflessione che non voglio morire. Mi fa tornare in mente quelle discussioni su Dio.
Ho pensato spesso alla morte in queste ultime settimane, ma non proprio a Dio. Mia madre mi portava in chiesa di quando in quando… eppure non ricordo di aver mai posto ciò in relazione con il pensiero di Dio. Ella accennava a Dio molto spesso, e io dovevo pregarlo ogni sera, ma non ci pensavo mai molto. Lo ricordo come un lontano zio dalla lunga barba assiso in trono (come il Babbo Natale dei grandi magazzini che, seduto sulla sua grande sedia, ti prende sulle ginocchia e ti domanda se sei stato buono e che cosa vorresti che ti portasse). Ma’ lo temeva, ma gli chiedeva ugualmente grazie. Pa’ non accennava mai a Lui… era come se Dio fosse stato uno dei parenti di Rose con i quali preferiva non avere niente a che fare.
«Siamo pronti per il decollo, signore. Posso aiutarla ad allacciarsi la cintura?»
«È necessario? Non mi piace sentirmi legato.»
«Fino a quando non ci saremo alzati dalla pista.»
«Preferirei di no, a meno che non sia indispensabile. Ho questa paura di essere legato. Probabilmente mi farà star male.»
«È il regolamento, signore. Permetta che l’aiuti.»
«No! Faccio da solo.»
«No… questa si infila qui.»
«Aspetti, mmm… Okay.»
Ridicolo. Non c’è niente di cui aver paura. La cintura non è troppo stretta… non fa alcun male. Perché dovrebbe essere così terrificante allacciare questa maledetta cintura? La cintura e le vibrazioni dell’aereo che decolla. Ansia del tutto sproporzionata alla situazione… quindi dev’essere qualcos’altro… che cosa?… volare in alto nelle scure nubi e attraverso ad esse… allacciarsi le cinture… essere immobilizzati… fare forza per liberarsi… odor di cuoio bagnato di sudore… vibrazioni e un rombo nelle orecchie.
Attraverso il finestrino, nelle nubi, vedo Charlie. L’età è difficile precisarla, dev’essere sui cinque anni. Prima di Norma…
«Non siete ancora pronti voi due?» Suo padre si affaccia sulla soglia, massiccio, specie nella cicciosità cascante della faccia e del collo. Ha un’espressione stanca. «Ho detto, siete pronti?»
«Un minuto solo», risponde Rose. «Mi sto mettendo il cappellino. Guarda se ha la camicia abbottonata e allacciagli le stringhe.»
«Su, presto, facciamola finita con questa storia.»
«Dove?» domanda Charlie. «Dove… va… Charlie?»
Suo padre lo guarda e si acciglia. Matt Gordon non sa mai come reagire alle domande del figlio.
Rose appare sulla soglia della camera da letto aggiustandosi la mezza veletta del cappellino. È una donna minuta come un uccellino e le braccia, alzate al capo, con i gomiti in fuori, sembrano ali. «Andiamo dal dottore che ti aiuterà a diventare intelligente.»
La veletta dà l’impressione ch’ella lo stia scrutando attraverso una rete metallica. Charlie è sempre spaventato quando si vestono in questo modo per uscire, perché sa che dovrà conoscere altra gente e sua madre si turberà e si adirerà.