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«Su, avanti, ridi!» ha sbuffato Nemur, che per poco non era venuto a sbattermi contro. «Ma se non lo troviamo, l’intero esperimento è in pericolo.»

Ho finto di cercare Algernon sotto un cestino per la carta straccia. «Sa una cosa?» ho detto. «Lei ha commesso un errore. E quello che è successo oggi forse non avrà alcuna importanza.»

Pochi secondi dopo, cinque o sei donne sono uscite strillanti dalla toletta, alzando con frenesia sulle gambe le gonne.

«È lì dentro», ha urlato qualcuno. Ma, per un momento, la folla è stata trattenuta dalla targa applicata alla parete… Signore. Io ho varcato per primo la barriera invisibile e sono passato per le sacre porte.

Algernon era appollaiato su uno dei lavabi e contemplava la propria immagine nello specchio.

«Vieni», ho detto. «Ce ne andremo di qui insieme.»

Si è lasciato prendere e mettere nella tasca della mia giacca. «Rimani lì tranquillo finché non ti avvertirò.»

Gli altri hanno fatto irruzione attraverso la porta a molla a doppio battente con un’aria colpevole, come se si fossero aspettati di vedere femmine nude e strillanti.

Io sono uscito mentre loro cercavano nella toletta e ho udito la voce di Burt: «C’è un buco in quel ventilatore. Forse è salito su di lì».

«Si accerti dove conduce», ha detto Strauss.

«Lei salga al secondo piano», ha detto Nemur, facendo un cenno a Strauss. «Io scenderò nello scantinato.»

A questo punto si sono precipitati fuori della toletta e le forze si sono suddivise. Ho seguito gli uomini del contingente di Strauss fino al secondo piano mentre cercavano di scoprire dove conducesse il ventilatore. Quando Strauss e White e l’altra mezza dozzina di seguaci hanno voltato a destra nel corridoio B, io ho voltato a sinistra nel corridoio C e ho preso l’ascensore per andare in camera mia.

Mi sono chiuso la porta alle spalle e ho dato un colpetto alla tasca. Un musetto roseo e un po’ di peluria bianca hanno fatto capolino per guardarsi intorno. «Devo soltanto fare le valige», ho detto, «poi ce ne andremo… e tu e io soli… due geni, creati dall’uomo, in fuga».

Ho fatto portare da un fattorino le valige e il registratore a nastro sul tassi che aspettava, ho pagato il conto dell’albergo e sono uscito per la porta girevole con l’oggetto delle ricerche raggomitolato nella tasca della giacca. Mi sono servito del biglietto di ritorno in aereo fino a New York.

Invece di tornare nella mia stanza, mi propongo di alloggiare in albergo qui in città per una o due notti. Sarà la nostra base d’operazioni mentre cercherò un appartamento ammobiliato verso il centro. Voglio essere vicino a Times Square.

Parlare di tutto questo mi fa sentire molto meglio… e anche un po’ sciocco. Davvero non so perché mi sia lasciato turbare tanto, né che cosa stia facendo su un aviogetto di ritorno a New York, con Algernon in una scatola di scarpe sotto la poltrona. Non devo lasciarmi prendere dal panico. L’errore non implica necessariamente alcunché di grave. È soltanto che le cose non sono ben definite come credeva Nemur. Ma io dove andrò, dopo?

Anzitutto devo rivedere i miei genitori. Non appena possibile.

Può anche darsi che non mi rimanga tutto il tempo che credevo di avere…

14° RAPPORTO SUI PROGRESSI

15 giugno La nostra fuga è stata annunciata ieri dai quotidiani e per i giornali popolari è stata una giornata campale. Nella seconda pagina del Daily Press c’era una mia vecchia fotografia e il disegno di un topolino bianco. Il titolo diceva DEFICIENTE-GENIO E TOPO IMPAZZISCONO. Secondo le notizie dei giornali Nemur e Strauss hanno dichiarato ch’io ero stato assoggettato a una tensione tremenda e che senza dubbio tornerò presto. Hanno offerto una ricompensa di cinquecento dollari per Algernon, senza sospettare che siamo insieme.

Passando a un altro articolo in quinta pagina, sono rimasto di stucco nel vedere una fotografia di mia madre e di mia sorella. Qualche giornalista si è evidentemente dato da fare.

LA SORELLA IGNORA DOVE SI TROVI IL DEFICIENTE-GENIO
[Servizio speciale per il Daily Press]

Brooklyn, New York, 14 giugno. La signorina Norma Gordon, che abita con la madre, Rose Gordon, al n. 4136 di Marks Street, a Brooklyn, NY, ha negato di sapere dove si trovi suo fratello. Norma Gordon ha detto:

«Per più di diciassette anni non lo abbiamo veduto né ci sono pervenute sue notizie».

La signorina Gordon dice di aver creduto morto suo fratello fino agli ultimi giorni dello scorso mese di marzo, quando il preside della facoltà di psicologia dell’università Beekman l’avvicinò per essere autorizzato a servirsi di Charlie in un esperimento.

«Mia madre mi aveva detto ch’era stato mandato alla Warren» (la clinica e scuola di addestramento Warren, a Warren, Long Island), ha dichiarato la signorina Gordon, «e che vi era morto pochi anni dopo. Non avevo idea che fosse ancora vivo».

La signorina Gordon prega chiunque sappia dove si trova suo fratello di mettersi in contatto con la famiglia.

Il padre, Matthew Gordon, che non vive con la moglie e la figlia, gestisce una bottega di barbiere a Bronx.

Ho contemplato per qualche tempo l’articolo, poi ho sfogliato il giornale all’indietro, guardando di nuovo la fotografia. Come posso descrivere mia madre e mia sorella?

Non posso dire di ricordare la faccia di Rose. Sebbene la fotografia fatta di recente sia chiara, continuo a vederla attraverso il velo della fanciullezza. L’ho riconosciuta e non l’ho riconosciuta. Se ci fossimo incontrati per la strada non l’avrei riconosciuta, ma ora, sapendo che è mia madre, riesco a distinguere i minimi particolari… sì!

Smunta, con fattezze esagerate. Naso e mento affilati. E mi par quasi di udire i suoi ciangottii e i suoi stridi da uccello. Ha i capelli raccolti sulla nuca in una crocchia, con severità. Mi fissa penetrante con i suoi occhi scuri. Vorrei che mi prendesse tra le braccia e mi dicesse che sono un bravo bambino e al contempo mi vien fatto di scansarmi per evitare uno schiaffo. La sua fotografia mi fa tremare.

E Norma… smunta in viso anche lei. Lineamenti non troppo duri, graziosi, ma somigliantissimi a quelli di mia madre. I capelli sciolti sulle spalle la raddolciscono. Siedono entrambe sul divano del salotto.

È stato il viso di Rose a far riaffiorare i ricordi spaventosi. Ella era due persone per me, e io non avevo mai modo di sapere quale delle due sarebbe divenuta. Forse lo rivelava agli altri con un gesto della mano, con un sopracciglio inarcato, con un cipiglio… mia sorella conosceva le avvisaglie della tempesta ed era sempre fuori di portata ogni volta che l’ira di mia madre divampava… ma quell’ira coglieva me, invariabilmente, di sorpresa. Mi avvicinavo a lei per esserne consolato e la sua ira si frangeva su di me.

E altre volte v’erano tenerezza e stretti abbracci come un bagno caldo, e mani che mi accarezzavano i capelli e la fronte, e le parole incise sopra la cattedrale della mia infanzia:

È come tutti gli altri bambini.
È buono.

Rivedo, attraverso la fotografia che va dissolvendosi, me stesso e mio padre chini su una culla di vimini. Lui mi sta tenendo per mano e dice: «Eccola lì. Non devi toccarla perché è molto piccola, ma quando crescerà avrai una sorellina con cui giocare».

Vedo mia madre nell’enorme letto lì accanto, sbiancata e sciupata, con le braccia abbandonate sulla trapunta ricamata a orchidee. Alza la testa ansiosamente. «Sorveglialo, Matt…»

Questo prima che avesse mutato atteggiamento nei miei riguardi, e ora mi rendo conto che lo diceva perché non aveva modo di sapere, ancora, se Norma sarebbe stata come me o no. Soltanto in seguito, quando fu certa che Dio aveva esaudito le sue preghiere e Norma dimostrò di possedere un’intelligenza normale sotto ogni aspetto, mia madre incominciò a esprimersi in modo diverso. Non soltanto la sua voce, ma il modo di toccarmi, l’aspetto, la sua stessa presenza… tutto mutò. Era come se i suoi poli magnetici si fossero invertiti e là dove un tempo avevano attratto, ora respingevano. Capisco adesso che mentre Norma fioriva nel nostro giardino, io ero diventato un’erbaccia e mi si permetteva di esistere soltanto dove non ero visibile, negli angolini e nei luoghi bui.