Vedendo la sua faccia sul giornale, improvvisamente l’ho odiata. Sarebbe stato meglio se avesse ignorato i medici, gli insegnanti e tutti gli altri i quali avevano tanta fretta di persuaderla che ero un deficiente, allontanandola da me in modo ch’ella mi dava sempre meno affetto proprio quando me ne necessitava di più.
A che gioverebbe rivederla adesso? Che cosa potrebbe dirmi di me stesso? Eppure sono curioso. Come reagirebbe?
Vederla e tornare indietro nel tempo per sapere che cos’ero? O dimenticarla? Vale la pena di conoscere il passato? Perché è tanto importante per me dirle: «Ma’, guardami. Non sono più mentalmente ritardato. Sono normale. Più che normale, anzi; sono un genio?»
Nel momento stesso in cui cerco di togliermela dalla mente, i ricordi riaffiorano dal passato per contaminare il presente. Un altro ricordo… quando ero molto più grande.
Un litigio.
Charlie sta giacendo sul letto, con le coperte ben rimboccate. La stanza è buia, eccettuato il filo sottile di luce gialla della porta socchiusa che penetra l’oscurità per unire entrambi i mondi. Ed egli ode cose, senza capire ma intuendo, poiché il mormorio rauco delle loro voci è collegato a ciò che dicono di lui. Sempre più, ogni giorno, finisce con l’associare quel tono a un cipiglio quando parlano di lui.
Si era quasi assopito quando, al di là del filo di luce, le voci sommesse si alzarono nella foga della discussione… la voce di sua madre, inasprita dalla minacciosità di chi è abituato a fare a modo suo grazie all’isterismo. «Dobbiamo mandarlo via. Non lo voglio più in casa con lei. Va’ dal dottor Portman e digli che vogliamo ricoverare Charlie nella clinica Warren.»
La voce di mio padre è ferma, equilibrata. «Ma sai bene che Charlie non le farebbe alcun male. Non può accaderle nulla a questa età.»
«Che cosa ne sappiamo? Forse ha conseguenze negative per la bambina crescere con un… con qualcuno come lui in casa.»
«Il dottor Portman ha detto…»
«Portman ha detto! Portman ha detto! Me ne infischio di quello che ha detto! Pensa a quello che significherà per lei avere un fratello simile. È stato un errore, tutti questi anni, cercar di credere che sarebbe cresciuto come gli altri bambini. Ora lo riconosco. Sarà meglio per lui se lo ricoveriamo.»
«Adesso che c’è la bambina, ti sei messa in mente di non volerlo più…»
«Credi che sia facile per me? Perché mi rendi la cosa ancor più penosa? Per tutti questi anni tutti hanno seguitato a dirmi che si sarebbe dovuto ricoverarlo. Bene, avevano ragione. Ricoveralo. Forse in clinica, con altri come lui, sarà più felice. Non so più che cosa sia male o bene. So soltanto che adesso non sacrificherò mia figlia per Charlie.»
E Charlie, pur non avendo capito che cosa si siano detti, ha paura e scivola sotto le coperte, con gli occhi aperti, cercando di perforare l’oscurità.
Come lo vedo adesso, non è davvero impaurito, ma si chiude semplicemente in se stesso, come un uccello o uno scoiattolo indietreggiano dal movimento brusco di chi porge loro cibo… una reazione involontaria, istintiva. La luce che penetra attraverso la porta socchiusa torna di nuovo a me come una visione luminosa.
Vedendo Charlie rannicchiato sotto le coperte vorrei poterlo consolare, spiegargli che non ha fatto niente di male, che è al di là delle sue possibilità riportare l’atteggiamento della madre a quello che era prima della nascita di sua sorella. Lì sul letto, Charlie non ha capito quel che dicevano, ma ora soffre. Se potessi portarmi nel passato dei miei ricordi le farei capire quanto mi feriva.
Non è questo il momento di andare da lei. Non è il momento fino a quando non avrò avuto il tempo di risolvere la cosa per mio conto.
Fortunatamente, per precauzione, ho prelevato i miei risparmi in banca non appena giunto a New York. Ottocentottantasei dollari non dureranno a lungo, ma mi daranno il tempo di orientarmi.
Sono andato ad alloggiare all’Hôtel Camden, nella Quarantunesima Strada, a un isolato da Times Square. New York! Le cose che ne ho letto! Gotham… il crogiuolo… la Bagdad sull’Hudson. Metropoli di luci e di colori. È incredibile che abbia vissuto e lavorato a una distanza di appena poche fermate della sotterranea… e che sia stato una sola volta in Times Square, con Alice.
Mi riesce difficile impedirmi di telefonarle. Più volte sono stato lì lì per farlo, e sempre ho cambiato idea. Devo tenermi lontano da lei.
Ho tanti pensieri che mi lasciano disorientato e perplesso da annotare. Dico a me stesso che fino a quando continuerò a dettare al registratore i rapporti sui progressi, nulla andrà perduto; la documentazione sarà completa. Rimangano pure all’oscuro per qualche tempo; io sono rimasto all’oscuro per più di trent’anni. Ma adesso sono stanco. Ieri, sull’aereo, non ho potuto dormire, e non riesco a tenere gli occhi aperti.
Riprenderò da questo punto domani.
16 giugno Ho telefonato ad Alice, ma ho riattaccato prima che rispondesse. Oggi ho trovato un appartamento ammobiliato. Novantacinque dollari al mese sono più di quanto mi fossi proposto di spendere, ma è situato tra la Quarantatreesima Strada e la Decima Avenue e io posso arrivare alla biblioteca in dieci minuti per continuare le mie letture e gli studi. L’appartamento è al quarto piano, ha quattro stanze e contiene un pianoforte preso a nolo. La padrona di casa dice che uno di questi giorni il servizio di noleggio verrà a ritirarlo, ma forse nel frattempo potrò imparare a suonarlo.
Algernon è un compagno piacevole. All’ora dei pasti occupa il suo posto al tavolinetto con le gambe pieghevoli. Gli piacciono le ciambelline salate e oggi ha bevuto un sorso di birra mentre guardavamo la partita di pallone alla TV. Credo che facesse il tifo per gli Yankee.
Toglierò quasi tutti i mobili dalla seconda camera da letto e adoprerò la stanza per Algernon. Mi propongo di costruirgli un labirinto tridimensionale con pezzi di plastica che posso procurarmi a buon mercato in centro. Vorrei che imparasse alcune complicate varianti per essere sicuro che si mantenga in forma. Ma vedrò se mi riuscirà di trovare qualche motivazione diversa dal cibo. Devono esservi altre ricompense capaci di indurlo a risolvere i problemi.
La solitudine mi dà modo di leggere e di pensare, e ora che i ricordi stanno riaffluendo, di scoprire il mio passato, per sapere chi e che cosa sono in realtà. Se qualcosa dovesse andar male avrò almeno questo.
19 giugno Ho conosciuto Fay Lillman, la mia vicina di casa che abita nell’appartamento di fronte. Quando sono tornato con le braccia piene di generi di drogheria, ho scoperto di essermi chiuso fuori e ho ricordato che la scala antincendio sulla facciata va dalla finestra del mio soggiorno all’appartamento con l’ingresso di fronte al mio, nel corridoio.
La radio squillava a tutto volume e pertanto ho bussato… prima piano e poi più forte.
«Avanti! La porta è aperta!»
Ho spinto la porta e mi sono irrigidito perché, di fronte a un cavalletto, intenta a dipingere, si trovava una bionda esile, in reggipetto e mutandine rosa.
«Scusi!» ho balbettato richiudendo la porta. Dall’esterno ho gridato: «Sono il suo vicino di casa, quello dell’appartamento di fronte. Sono rimasto chiuso fuori e volevo servirmi della scala antincendio per arrivare alla mia finestra».