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«Servizio completo», ho detto, accennando con la testa alla lista sindacale delle tariffe, «capelli, barba, shampoo, abbronzatura…»

Ha inarcato le sopracciglia.

«Devo incontrarmi con una persona che non vedo da moltissimo tempo», gli ho spiegato, «e voglio figurare bene».

È stata una sensazione spaventosa farmi tagliare di nuovo i capelli da lui. In seguito, mentre affilava il rasoio sulla coramella, il suono frusciante mi ha fatto rabbrividire. Ho chinato il capo sotto la pressione dolce della mano di lui e ho sentito la lama raschiarmi con cautela il collo. Ho chiuso gli occhi e aspettato. Era come trovarmi di nuovo sul tavolo operatorio.

Un muscolo sul collo mi si è irrigidito e poi, senza alcun preavviso, ha guizzato. Il rasoio mi ha tagliato, subito al di sopra del pomo di Adamo.

«Ehi», ha gridato lui, «Gesù… stia fermo. Si è mosso. Ehi, sono dolentissimo».

Si è precipitato verso il lavabo per inumidire una salvietta.

Nello specchio ho guardato la chiazza di un rosso vivo e il sottile filo di sangue che mi scendeva giù per la gola.

Tutto agitato, scusandosi, è riuscito a fermarlo prima che arrivasse alla salvietta intorno al collo.

Osservandolo muoversi, svelto per essere un uomo così tozzo e massiccio, mi sono pentito dell’inganno. Avrei voluto dirgli chi ero e lasciarmi mettere un braccio sulle spalle da lui, per parlare insieme del passato. Ma ho aspettato mentre tamponava il taglio con polvere asettica.

Ha terminato di radermi in silenzio, poi ha portato la lampada a raggi ultravioletti accanto alla poltrona e mi ha messo sugli occhi freschi batuffoli di cotone imbevuti di liquido antinfiammatorio. E lì, nelle rosse tenebre sotto le palpebre, ho rivissuto la notte in cui egli mi aveva condotto via da casa per l’ultima volta…

Charlie dorme nell’altra stanza, ma si desta udendo sua madre che grida. Ha imparato a dormire nonostante le liti… sono un evento quotidiano in casa sua. Ma stanotte c’è qualcosa di tremendo nell’isterismo di sua madre. Egli si fa piccolo contro il guanciale e ascolta.

«Non posso farci niente! Deve andarsene! Dobbiamo pensare a lei. Non voglio che ogni giorno torni a casa da scuola piangendo perché i suoi compagni la prendono in giro. Non possiamo distruggere a causa di Charlie le sue possibilità di condurre un’esistenza normale.»

«Che vuoi che faccia? Che lo metta in mezzo alla strada?»

«Mandalo via. Mandalo alla clinica Warren.»

«Ne riparleremo domattina.»

«No. Tu non fai altro che parlare, parlare e non combini niente. Non lo voglio qui un solo giorno di più. Portalo via subito… stanotte.»

«Non dire sciocchezze, Rose. È troppo tardi per fare qualcosa stanotte… Stai urlando così forte che ti sentiranno tutti.»

«Non me ne importa. Deve andarsene stanotte. Non sopporto più di vederlo.»

«Stai diventando impossibile, Rose. Che cosa fai adesso?»

«Ti avverto: portalo via di qui.»

«Metti giù quel coltello.»

«Non voglio distruggere la vita di Norma.»

«Sei pazza. Metti via quel coltello.»

«È meglio che muoia. Non potrà mai condurre un’esistenza normale. È meglio che muoia…»

«Sei impazzita. Per amor di Dio, torna in te!»

«Allora portalo via di qui. Adesso… stanotte stessa.»

«E va bene. Stanotte lo porterò da Herman e forse domani vedremo se si può ricoverarlo nella clinica Warren.»

Segue il silenzio. Nell’oscurità sento il fremito del silenzio dilagare in casa e poi la voce di Matt, meno alterata di quella di mia madre. «So bene quello che hai passato con lui e non posso rimproverarti se ti preoccupi. Ma devi dominarti. Lo porterò da’ Herman. Sei contenta così?»

«Non chiedo altro. Anche tua figlia ha il diritto di vivere.»

Matt entra nella stanza di Charlie e veste suo figlio; e il ragazzo, benché non capisca quel che sta accadendo, ha paura. Mentre escono di casa lei distoglie lo sguardo. Forse sta cercando di convincersi che Charlie è già scomparso dalla sua vita… che non esiste più. Uscendo, Charlie vede sul tavolo di cucina il lungo coltello per tagliare l’arrosto e intuisce vagamente che sua madre volevo fargli del male. Voleva portargli via qualcosa e darlo a Norma.

Quando si volta a guardarla, lei ha preso uno straccio per lavare l’acquaio…

Dopo il taglio dei capelli, la rasatura, l’abbronzatura e il resto, mi sono abbandonato sulla poltrona sentendomi leggero, lindo, pulito, e Matt ha tolto la salvietta e mi ha offerto un secondo specchio perché potessi vedermi la nuca. Mentre mi vedevo nello specchio dinanzi a me guardare entro lo specchietto che lui reggeva, quest’ultimo si è inclinato per un attimo assumendo l’unico angolo che potesse produrre l’illusione della profondità: corridoi senza fine di me stesso… intento a guardare me stesso… che guardavo! me stesso… che guardavo me stesso… che guardavo…

Quale dei due? Chi dei due ero io?

Ho pensato di non dirgli nulla. A che gli servirebbe adesso sapere? Ho pensato di andarmene senza rivelargli chi ero. Poi ho ricordato che volevo farmi riconoscere. Doveva ammettere ch’ero vivo, ch’ero qualcuno. Volevo che si vantasse di me con i clienti del giorno dopo, tagliando loro i capelli e radendoli. Ciò avrebbe reso tutto reale.

Se avesse saputo ch’ero suo figlio sarei diventato un individuo.

«Ora che mi hai tolto i peli dalla faccia forse potrai riconoscermi», ho detto alzandomi, aspettando un segno di riconoscimento.

Si è accigliato. «Che cos’è? Una battuta di spirito?»

Gli ho assicurato che non scherzavo e che se mi avesse osservato con sufficiente attenzione sarebbe riuscito a riconoscermi. Ha alzato le spalle e si è voltato per riporre pettini e forbici. «Non ho tempo per gli indovinelli. Devo chiudere. Fanno tre dollari e mezzo.»

E se non mi avesse ricordato? Se questa fosse stata tutta una assurda fantasia? Già tendeva la mano per avere i soldi, ma io non ho accennato a togliermi di tasca il portafogli. Doveva ricordarmi. Doveva riconoscermi.

Ma no… naturalmente no… e mentre sentivo in bocca il sapore acido e il sudore mi inumidiva il palmo delle mani, ho capito che di lì a un momento sarei stato male. Ma non volevo che questo succedesse davanti a lui.

«Ehi, si sente bene?»

«Sì… aspetti soltanto… un momento…» Incespicando mi sono lasciato cadere su una delle sedie cromate e, piegato in due, ho respirato affannosamente aspettando che il sangue mi riaffluisse alla testa. Il mio stomaco gorgogliava.

Oh Dio, non farmi svenire adesso. Non rendermi ridicolo di fronte a lui.

«Acqua… un po’ d’acqua, per piacere…» Non tanto per bere quanto per farlo voltare. Non volevo ch’egli mi vedesse in questo modo dopo tanti anni. Quando è tornato indietro con un bicchiere mi sentivo un po’ meglio.

«Qua, beva questo. Si riposi un momento. Si rimetterà subito.» Mi ha fissato mentre sorseggiavo l’acqua fresca e l’ho veduto lottare alle prese con ricordi quasi dimenticati. «Ci siamo davvero già conosciuti in qualche posto?»

«No… Ora sto benissimo. Me ne andrò tra un momento.»

Come avrei potuto dirglielo? Che cosa avrei dovuto dirgli? Senti, guardami, sono Charlie, il figlio che tu hai cancellato dai registri dello stato civile. Non che incolpi te di quel che è accaduto, ma eccomi qui, completamente rimesso in sesto, meglio di prima. Mettimi alla prova. Fammi domande. Parlo venti lingue, vive e morte; sono un genio della matematica e sto scrivendo un concerto per pianoforte che mi farà ricordare molto tempo dopo la mia scomparsa.

Come avrei potuto dirglielo?