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Sono piombati sul pavimento andando in pezzi e proiettando frammenti di porcellana bianca sotto i tavoli. Il ragazzo è rimasto immobile, stordito e spaventato, reggendo in mano il vassoio vuoto. I fischi e le prese in giro degli avventori (grida di: «Ehi, ecco che se ne vanno gli utili!»… «Mazel tov!»… e «Be’, non lavorava qui da un pezzo…» che sembravano invariabilmente far seguito a una rottura di stoviglie nei ristoranti) lo confondevano.

Quando il proprietario è venuto a vedere che cosa fosse accaduto il ragazzo si è fatto piccolo… e ha alzato le braccia come per parare un colpo.

«E vabbe’, vabbe’, tonto», ha urlato l’uomo, «non startene lì come un micco! Va’ a prendere la scopa e porta via quei cocci. La scopa… la scopa, idiota! È in cucina. Spazza via tutto».

Non appena il ragazzo si è reso conto che non sarebbe stato punito gli è scomparsa dal viso l’espressione spaventata e ha sorriso e canticchiato mentre tornava indietro con la scopa. Alcuni dei clienti più chiassosi hanno continuato a burlarsi di lui divertendosi a sue spese.

«Ehi, figliolo, da questa parte. Ce n’è un bel pezzo dietro di te…»

«Su, avanti, rompine ancora…»

«Non è poi tanto stupido. È più semplice romperli che lavarli…»

Il ragazzo, spostando gli occhi vacui su coloro che lo deridevano, ne ha rispecchiato adagio i sorrisi e infine ha sogghignato con aria incerta dello scherzo che non capiva.

Mi sono sentito sconvolto osservando quel sorriso ottuso e vacuo… gli occhi grandi e vividi del ragazzo, incerto ma ansioso di piacere, e ho capito che cosa avevo riconosciuto in lui. Lo deridevano perché era un ritardato mentale.

E a tutta prima m’ero divertito anch’io insieme a tutti gli altri.

A un tratto mi sono infuriato contro me stesso e contro tutti coloro che si burlavano di lui. Avrei voluto prendere i piatti e lanciarglieli contro. Avrei voluto sferrare pugni su quelle facce ridenti. Sono balzato in piedi e ho gridato: «Finitela! Lasciatelo in pace! Non può capire. Non è colpa sua se è quello che è… ma per amor di Dio abbiate un po’ di rispetto! È un essere umano!»

Nel ristorante è calato il silenzio. Ho imprecato tra me e me per essermi lasciato andare e per aver fatto una scenata, e ho cercato di non guardare il ragazzo mentre pagavo il conto e uscivo senza aver toccato cibo. Mi vergognavo per entrambi.

Come è strano che persone sensibili e di animo buono, persone che non si approfitterebbero di un cieco o di un uomo nato senza braccia o gambe, non esitino a maltrattare un uomo privo di intelligenza! Mi ha esasperato ricordare che non molto tempo fa io, come questo ragazzo, avevo pazientemente fatto la parte del pagliaccio.

E quasi me n’ero dimenticato.

Soltanto poco tempo fa ho capito che la gente rideva di me. Ora mi rendo conto che senza saperlo mi ero unito agli altri ridendo di me stesso. E questo mi addolora più d’ogni altra cosa.

Ho riletto più volte i miei primi rapporti sui progressi e ho veduto l’ignoranza, l’ingenuità infantile, la mente ottusa sbirciare da una stanza buia, attraverso il buco della chiave, la luce abbacinante all’esterno. Nei miei sogni e nei miei ricordi ho veduto Charlie sorridere felice, non ben sicuro di quel che diceva la gente intorno a lui. Anche nella mia ottusità mi rendevo conto di essere inferiore. Gli altri avevano qualcosa che a me mancava… qualcosa che mi era negato. Nella mia cecità mentale avevo creduto che in qualche modo ciò fosse collegato alla capacità di leggere e di scrivere, ed ero stato certo che se fossi riuscito a imparare queste cose sarei diventato anche intelligente.

Anche un uomo debole di mente vuole essere come gli altri.

Un bambino può non essere capace di mangiare o non sapere come nutrirsi, ma ha fame ugualmente.

Oggi ho imparato qualcosa. Devo smetterla con queste preoccupazioni infantili sul mio conto… sul mio passato e sul mio avvenire. Voglio dare qualcosa di me agli altri. Voglio servirmi della mia cultura e delle mie capacità per accrescere l’intelligenza umana. Chi è meglio preparato di me? Chi altro ha vissuto in entrambi i mondi?

Domani mi metterò in contatto con il consiglio d’amministrazione della Fondazione Welberg e chiederò il permesso di lavorare indipendentemente all’esperimento. Se me lo consentiranno potrò essere in grado di rendermi loro utile. Ho alcune idee.

Vi è molto da fare con questa tecnica, se sarà perfezionata. Se è stato possibile fare di me un genio, che cosa non si potrà fare con gli altri cinque milioni di individui mentalmente ritardati degli Stati Uniti? E con gli innumerevoli milioni di deboli di mente in tutto il mondo e con gli altri che ancora nasceranno? E a quali livelli fantastici si potrà arrivare impiegando la stessa tecnica con le persone normali? O con i geni?

Esistono tante di quelle porte da aprire che sono impaziente di applicare al problema le mie conoscenze e le mie capacità.

Devo far capire a tutti che la cosa è molto importante per me.

Sono certo che la Fondazione mi concederà il permesso.

Ma non posso più rimanere solo. Devo parlarne ad Alice.

25 giugno Oggi ho telefonato ad Alice. Ero nervoso e devo esserle sembrato incoerente, ma è stato piacevole udire la sua voce e lei sembrava felice di udire la mia. Ha accettato di ricevermi e ho preso un tassi in centro, spazientito dalla lentezza con la quale procedeva.

Prima che avessi potuto bussare ha spalancato la porta e mi ha gettato le braccia al collo. «Charlie, ci siamo preoccupati tanto a causa tua. Ho avuto visioni orribili di te morto in un vicolo o mentre vagabondavi nei quartieri poveri, colpito da amnesia. Perché non ci hai fatto sapere che stavi bene? Avresti potuto fare almeno questo.»

«Non rimproverarmi. Dovevo rimanere solo per qualche tempo e trovare la risposta ad alcuni interrogativi.»

«Vieni in cucina. Ti preparo un po’ di caffè. Che cosa hai fatto?»

«Di giorno… ho pensato, letto e scritto; e di notte… ho vagabondato in cerca di me stesso. E ho scoperto che Charlie mi sta spiando.»

«Non parlare così.» Alice ha rabbrividito. «Questa faccenda di essere spiato non è reale. L’hai immaginata tu.»

«Non posso fare a meno di pensare che non sono io. Ho usurpato il suo posto e l’ho scacciato come hanno scacciato me dalla panetteria. Voglio dire che Charlie Gordon esiste nel passato, e il passato è reale. Non si può costruire un nuovo palazzo in un determinato punto fino a quando non si è demolito quello che c’era prima, e il Charlie di un tempo non può essere distrutto. Esiste. Dapprima l’ho cercato; sono andato a far visita a suo… a mio… padre. Volevo soltanto dimostrare che Charlie esisteva come individuo nel passato per poter giustificare la mia esistenza. Sono stato insultato quando Nemur ha detto di avermi creato. Ma ho scoperto che Charlie non si limita a esistere nel passato, esiste anche nel presente. In me e intorno a me. Si è sempre interposto tra noi. Credevo che la mia intelligenza creasse una barriera… il mio pomposo, stupido orgoglio, la sensazione di non avere niente in comune con te perché ti avevo superato. Ma non è così. È Charlie, il ragazzetto che ha paura delle donne a causa di quello che gli fece sua madre. Non capisci? In tutti questi mesi, mentre crescevo intellettualmente, ho sempre avuto la stessa struttura emotiva di Charlie fanciullo. E ogni volta che mi sono avvicinato a te o ho pensato di fare all’amore con te vi è stato un corto circuito.»

Ero eccitato. La mia voce la martellava, tanto che ha cominciato a fremere. Il viso le si è acceso. «Charlie», ha bisbigliato, «posso fare qualcosa? Posso aiutarti?»