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16° RAPPORTO SUI PROGRESSI

14 luglio Era una brutta giornata per andare alla Warren, grigia e piovosa, e questo può spiegare lo sconforto che mi prende quando ci penso. O forse sto ingannando me stesso ed è stata l’idea di potervi essere ricoverato a turbarmi. Mi sono fatto prestare la macchina da Burt. Alice voleva accompagnarmi, ma bisognava ch’io vedessi la clinica da solo. A Fay non ho detto che ci andavo.

Ci è voluta un’ora e mezzo di macchina per arrivare al villaggio agricolo di Warren, a Long Island, e non mi è stato difficile trovare il posto: una vasta e grigia dimora di campagna, rivelata al mondo soltanto da un cancello d’ingresso tra due pilastri di cemento all’inizio di uno stretto viale e da una targa d’ottone lucidata con la scritta CLINICA STATALE E SCUOLA DI ADDESTRAMENTO WARREN.

Il cartello stradale intimava 30 chilometri all’ora e così sono passato adagio accanto agli edifici, cercando l’amministrazione.

Un trattore veniva nella mia direzione attraverso il prato e oltre all’uomo al volante ce n’erano altri due dietro. Ho sporto la testa fuori del finestrino per domandare: «Sa dirmi dove si trova l’ufficio del signor Winslow?»

Il conducente ha fermato il trattore e ha additato a sinistra e avanti. «Vada fino all’ospedale principale. Volti a sinistra e si fermi a destra.»

Non ho potuto fare a meno di notare il giovane dagli occhi fissi in piedi sulla parte posteriore del trattore, afferrato a una maniglia. Aveva la barba lunga e gli si scorgeva sul volto la traccia di un vacuo sorriso. Portava un berretto da marinaio con la tesa abbassata infantilmente per fare schermo agli occhi, sebbene non splendesse il sole. Ho colto per un attimo il suo sguardo, quegli occhi grandi, interrogativi, ma ho voluto voltarmi. Quando il trattore è ripartito ho visto nel retrovisivo che il giovane mi stava seguendo con lo sguardo, incuriosito. La cosa mi ha sconvolto… perché mi ha ricordato Charlie.

Sono rimasto stupito nel constatare che il primo psicologo era così giovane, un uomo alto, magro, con un’espressione stanca sulla faccia. Ma i fermi occhi azzurri di lui lasciavano capire che dietro l’aria giovanile si celava forza di carattere.

Mi ha accompagnato per la tenuta con la sua macchina, indicandomi la sala di ricreazione, l’ospedale, la scuola, gli uffici amministrativi e gli edifici di mattoni a due piani che egli chiama villini, dove vivono ì pazienti.

«Non ho notato una recinzione intorno alla Warren», ho detto.

«No, c’è soltanto un cancello all’ingresso, e poi siepi per impedire ai curiosi di guardar dentro.»

«Ma come fanno a impedir… loro… di allontanarsi… di andarsene?»

Ha alzato le spalle e ha sorriso. «In realtà non possiamo. Alcuni se ne vanno, però tornano quasi tutti.»

«Non vengono ricercati?»

Mi ha fissato, quasi tentasse di indovinare che cosa si nascondeva dietro la mia domanda. «No. Se si cacciano nei guai veniamo a saperlo ben presto… oppure la polizia li riporta indietro.»

«E se non si mettono nei pasticci?»

«Se non abbiamo notizie di loro o da loro, presumiamo che siano riusciti ad adattarsi in modo soddisfacente alle condizioni esterne. Lei deve rendersi conto, signor Gordon, che questa non è una prigione. Lo Stato ci chiede di fare ogni ragionevole tentativo per riavere i pazienti, ma non disponiamo dei mezzi necessari per sorvegliare da vicino, continuamente, quattromila persone. Quelli che riescono ad andarsene sono tutti deficienti mentali… non che ne ospitiamo più molti, ormai. Sono più numerosi i casi di lesioni cerebrali che richiedono un’assistenza continua; i deficienti, invece, godono di una maggiore libertà, ma la maggior parte di loro, dopo aver passato una settimana fuori di qui, torna indietro essendosi resa conto che fuori non c’è nulla di desiderabile. Il mondo non li vuole, e se ne rendono conto ben presto.»

Siamo discesi dalla macchina per dirigerci a piedi verso uno dei villini. All’interno le pareti erano di piastrelle bianche e nell’edificio regnava un odore di disinfettante. Il vestibolo al pianterreno si apriva su una sala di ricreazione nella quale sedevano settantacinque ragazzi in attesa che suonasse il campanello del pranzo. Ad attrarre immediatamente il mio sguardo è stato uno dei ragazzi più grandi su una sedia in un angolo, intento a cullare tra le braccia uno degli altri ragazzi, sui quattordici o quindici anni. Si sono voltati tutti a guardarci quando siamo entrati e alcuni dei più audaci sono venuti a fissarmi da vicino.

«Non badi a loro», ha detto Winslow, vedendo la mia espressione. «Non le faranno alcun male.»

La responsabile delle pulizie, una bella donna di ossatura robusta, con le maniche rimboccate e un grembiule di cotone sulla camicetta bianca inamidata, è venuta verso di noi. Dalla cintura le pendeva un mazzo di chiavi che tintinnavano a ogni suo movimento, e soltanto quando si è voltata ho veduto che il lato sinistro della sua faccia era deturpato da una grande voglia color vino.

«Non mi aspettavo gente oggi, Ray», ha detto. «Di solito lei accompagna i visitatori il giovedì.»

«Le presento il signor Gordon, Thelma, dell’università Beekman. Vuole soltanto dare un’occhiata in giro e farsi un’idea del lavoro che svolgiamo qui. Sapevo che per lei non avrebbe fatto alcuna differenza, Thelma. Qualsiasi giorno le va bene.»

«Già», ha riso la donna con vigorosa cordialità, «ma il mercoledì voltiamo i materassi. Il giovedì c’è un odore molto migliore qui dentro».

Ho notato che rimaneva alla mia sinistra, per nascondermi la macchia sulla faccia. Mi ha accompagnato nel dormitorio, nella lavanderia, nei ripostigli e nella sala da pranzo, con le tavole già apparecchiate in attesa che il cibo venisse portato dalle cucine. Sorrideva, parlando, e la sua espressione e i capelli raccolti in una crocchia sul capo la facevano somigliare a una ballerina di Lautrec; ma non mi guardava mai negli occhi. Mi sono domandato come sarebbe vivere qui sorvegliato da lei.

«Sono molto buoni, in questo villino», ha detto. «Ma sa com’è: trecento ragazzi, settantacinque per piano, e appena cinque di noi a sorvegliarli… Non è facile tenerli sotto controllo. Però qui si sta molto meglio che nei villini sporchi. Il personale, in quelli, non resiste molto a lungo. Con i bambini non ci si bada troppo, ma quando diventano adulti e continuano a non saper badare a se stessi, la faccenda diventa rivoltante e disastrosa.»

«Lei sembra essere una persona molto gentile». ho osservato. «I ragazzi sono fortunati ad averla come loro governante.»

Ha riso di cuore, sempre guardando diritto dinanzi a sé, e ha mostrato i denti candidi. «Non sono migliore né peggiore delle altre. Voglio un gran bene ai miei ragazzi. Non è un lavoro da nulla, ma è soddisfacente se si pensa quanto hanno bisogno di noi.» Il sorriso le è dileguato dalle labbra per un momento. «I ragazzi normali crescono troppo rapidamente e non hanno più bisogno di nessuno… se ne vanno per conto loro… dimenticano chi li ha amati e ha avuto cura di loro. Ma questi fanciulli hanno bisogno di tutto ciò che siamo in grado di dare… per tutta la vita.»

Si è messa di nuovo a ridere, imbarazzata dalla propria serietà. «È duro lavorare qui, ma ne vale la pena.»

Al pianterreno, dove Winslow ci stava aspettando. è suonato il campanello e i ragazzi sono entrati in fila nella sala da pranzo. Ho notato che il ragazzo grande, il quale aveva tenuto in grembo il più piccolo, lo stava ora guidando verso la tavola e lo teneva per mano.

«È una gran cosa», ho detto, accennando con la testa da quella parte.

Anche Winslow ha annuito. «Il più grande si chiama Jerry, e l’altro Dusty. Ci capita spesso, qui, di vedere situazioni del genere. Quando nessun altro ha tempo da dedicare ai ragazzi, essi capiscono abbastanza per trovare tra loro contatti umani e affetto.»