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Mentre, diretti verso la scuola, passavamo davanti a uno degli altri villini, ho udito un urlo, seguito da un lamento, raccolto ed echeggiato da due o tre altre voci. V’erano sbarre alle finestre.

Winslow è parso a disagio per la prima volta in tutta la mattinata. «Quello è un villino speciale di sicurezza», ha spiegato. «Ritardati mentali in preda a turbe emotive. Quando è probabile che possano fare del male a se stessi o agli altri, li mettiamo nel villino K. Vi rimangono chiusi continuamente.»

«Hanno qui pazienti con turbe emotive? Ma non dovrebbero essere ricoverati in ospedali psichiatrici?»

«Oh, certo», ha risposto, «ma è una cosa difficile ad accertarsi. A volte la linea di confine che li separa dalle turbe emotive scompare soltanto dopo qualche tempo che si trovano qui. Altri ci vengono affidati dai tribunali e non possiamo fare altro che ospitarli, anche se in realtà non abbiamo posto per loro. La vera difficoltà sta nel fatto che non c’è più posto per nessuno in nessun luogo. Lo sa quanti sono i prenotati che aspettano di entrare da noi? Millequattrocento. E alla fine dell’anno potremo forse avere posto per venti o trenta pazienti».

«Dove si trovano adesso questi millequattrocento?»

«A casa loro, in attesa di un posto libero qui o in qualche altro istituto. Vede, il problema dello spazio da noi non è come il consueto affollamento degli ospedali. I nostri pazienti di solito vengono per restare tutta la vita.»

Mentre ci avvicinavamo alla nuova scuola, un edificio di un piano in vetro e cemento, con ampie finestre, ho cercato di immaginare che cosa si sarebbe provato percorrendo quei corridoi come pazienti. Mi sono raffigurato nella fila di uomini e di ragazzi che aspettavano di entrare in aula. Forse sarei stato uno di quelli che spingevano un altro ragazzo su una sedia a rotelle o guidavano qualcuno tenendolo per mano o cullavano tra le braccia un compagno più piccolo.

In una delle aule di falegnamerìa, dove alcuni ragazzi grandi stavano costruendo banchi sotto la sorveglianza di un maestro, tutti si sono raggruppati intorno a me, osservandomi incuriositi. L’insegnante ha deposto la sega ed è venuto verso di noi.

«Le presento il signor Gordon dell’università Beekman», ha detto Winslow. «Vuole dare un’occhiata a qualcuno dei nostri pazienti. Ha intenzione di acquistare la clinica.»

L’insegnante si è messo a ridere e ha accennato ai suoi allievi. «Be’, se l’ac-cquista d-deve p-prenderci i-insieme ad essa.»

Mentre mi faceva visitare l’aula ho notato lo strano silenzio dei ragazzi. Continuavano il loro lavoro di levigatura o verniciatura dei banchi appena costruiti, ma non parlavano.

«Q-questi s-sono i m-miei a-allievi s-silenziosi, s-sa». ha detto l’insegnante, quasi avesse intuito la mia domanda inespressa. «S-ordom-muti.»

«Ne abbiamo centosei», si è affrettato a spiegare Winslow, «per uno studio speciale finanziato dal governo federale».

Quale incredibile cosa! Quanto meno avevano di altri esseri umani. Mentalmente ritardati, sordi, muti… eppure levigavano banchi con entusiasmo.

Uno dei ragazzi che stava stringendo un blocco di legno entro una morsa, ha interrotto il lavoro, ha toccato Winslow sul braccio e ha additato l’angolo in cui numerosi oggetti terminati stavano asciugando su scaffali. Il ragazzo ha indicato un sostegno per paralume, sul secondo scaffale, accennando poi a se stesso. Era un lavoro rudimentale, sbilenco, con il mastice che aveva riempito le connessure visibilissimo e la verniciatura troppo spessa e non uniforme. Winslow e l’insegnante lo hanno lodato entusiasticamente e il ragazzo ha sorriso tutto orgoglioso, guardandomi e aspettandosi una lode anche da me.

«Sì», ho annuito, pronunciando con enfasi esagerata le parole, «bellissimo… splendido». L’ho detto perché lui ne aveva bisogno, ma mi sentivo vuoto dentro. Il ragazzo mi ha sorriso e quando ci siamo accinti ad andarcene è venuto a toccarmi il braccio come per dirmi arrivederci. La commozione mi ha soffocato e ho stentato molto a dominarmi finché non siamo usciti di nuovo nel corridoio.

La direttrice della scuola è una donna piccola di statura, grassoccia, materna, che mi ha fatto sedere di fronte a un diagramma ben disegnato dal quale risultano i vari tipi di pazienti, la specializzazione assegnata a ciascuna categoria e le materie studiate.

«Naturalmente», ha spiegato, «non ospitiamo più molti di coloro che hanno un quoziente di intelligenza meno basso. Ad essi, quelli con un quoziente di intelligenza di sessanta o settanta, si provvede in misura sempre maggiore nelle scuole cittadine, in classi speciali, oppure vi sono enti comunali che se ne occupano. Quasi tutti quelli affidati a noi sono in grado di abitare fuori, in ospizi o pensioni, e di svolgere un lavoro semplice nelle fattorie, nelle fabbriche o nelle lavanderie…»

«O nelle panetterie», le ho suggerito.

Si è accigliata. «Sì, suppongo che ne sarebbero capaci. Noi classifichiamo inoltre i nostri bambini (io li chiamo tutti bambini, qualunque età abbiano, perché sono tutti bambini qui) in due categorie, puliti o sporchi. È molto più semplice tenere in ordine i rispettivi villini se ognuno viene inquadrato secondo il proprio livello. Alcuni degli sporchi sono casi con gravissime lesioni al cervello, tenuti in appositi lettini e destinati a rimanervi per tutta la vita…»

«Fino a quando la scienza non avrà trovato il modo di aiutarli.»

«Oh», ha sorriso lei, spiegandomi meticolosamente, «temo che siano irrecuperabili».

«Nessuno è irrecuperabile.»

Mi ha sbirciato con un’aria incerta. «Sì, sì, certo. Lei ha ragione. Dobbiamo sperare.»

L’avevo innervosita. Ho sorriso tra me e me, pensando: che cosa accadrebbe se mi riportassero qui come uno dei suoi bambini? Mi classificherebbero pulito o sporco?

Tornati nell’ufficio di Winslow abbiamo sorseggiato un caffè mentre lui parlava del suo lavoro. «È un buon posto», ha detto. «Del nostro personale non fanno parte psichiatri… vi è soltanto un consulente esterno che viene ogni due settimane. Ma le cose vanno bene ugualmente. Ognuno degli psicologi è dedito al suo lavoro. Avrei potuto assumere uno psichiatra, ma con lo stipendio che dovrei corrispondergli posso assumere due psicologi… uomini che non temono di dare una parte di se stessi a queste creature.»

«Che cosa intende dire con ’una parte di se stessi ’?»

Mi ha studiato per un momento, poi, attraverso la sua stanchezza, è balenata l’ira. «Vi sono molte persone disposte a dare denaro o materiale, ma pochissimi disposti a dare tempo e affetto. Ecco che cosa intendo dire.» La sua voce è divenuta dura ed egli ha additato un biberon su uno scaffale della libreria al lato opposto della stanza.

«Vede quel biberon?»

Gli ho detto che mi ero domandato come mai si trovasse lì non appena entrato nel suo ufficio.

«Bene, quante persone conosce lei che sarebbero disposte a prendere in braccio un uomo adulto e ad allattarlo con il biberon? E a correre il rischio che il paziente urini o defechi addosso a loro? Ha l’aria sorpresa. Non può capire, non è vero, dall’alto della torre d’avorio delle sue ricerche? Che cosa sa lei dell’essere precluso da ogni esperienza umana come lo sono i nostri pazienti?»

Non ho potuto trattenere un sorriso, ed egli deve avere frainteso, poiché si è alzato e bruscamente ha posto termine al colloquio. Se tornerò qui per rimanervi e se verrà a sapere tutta la mia vicenda, sono certo che capirà. È il tipo d’uomo capace di capire.

Uscendo in macchina dalla clinica Warren, non sapevo che cosa pensare. Il senso di gelido grigiore era ovunque intorno a me… un senso di rassegnazione. Non si era parlato di riabilitazione, di guarigione, della possibilità di rimandare un giorno nel mondo quelle creature. Nessuno aveva parlato di speranza. La sensazione che predominava era quella di una morte vivente… o, peggio, quella che i poveretti non fossero mai stati vivi e coscienti. Anime avvizzite sin dall’inizio e costrette a sgranare gli occhi nel tempo e nello spazio di ogni giorno.