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Quando mi sono avvicinato alla casa mi aspettava una seconda sorpresa. Mia madre si trovava sulla veranda, con un vecchio maglione marrone, e stava lavando dall’esterno le finestre al pianterreno sebbene facesse freddo e tirasse vento. Sempre al lavoro per dimostrare ai vicini fino a che punto sapeva essere una buona moglie e una buona madre.

La cosa più importante era sempre stata per lei quello che pensavano gli altri… le apparenze, prima di se stessa o della sua famiglia. E si sentiva virtuosa per questo. Più e più volte Matt insisteva nel dire che quanto pensavano gli altri non era la sola cosa a contare nella vita. Ma invano. Norma doveva vestirsi bene; la casa doveva avere bei mobili; Charlie doveva essere tenuto in casa affinché gli altri non sapessero che non era normale.

Arrivato al cancelletto mi sono fermato a guardarla mentre lei si raddrizzava per riprendere fiato. Vedendo la sua faccia ho tremato, ma non era la faccia che così ostinatamente avevo cercato di ricordare. I capelli erano diventati bianchi, striati di grigio, e la pelle delle gote sembrava vizza e rugosa. Il sudore le faceva luccicare la fronte. Mi ha veduto e ha ricambiato il mio sguardo.

Avrei voluto distogliere gli occhi, tornare indietro lungo la strada, ma non mi è stato possibile… non dopo essere arrivato sin lì. Mi sarei limitato a domandarle da che parte dovevo andare, fingendo di essermi smarrito in un quartiere che non conoscevo. Averla veduta mi bastava. Ma intanto rimanevo lì in piedi, aspettando che fosse lei la prima a fare qualcosa. Ed ella non faceva altro che rimanere immobile a fissarmi.

«Vuole qualcosa?» La voce rauca era un’eco inequivocabile nei corridoi della memoria.

Ho aperto la bocca, ma non ne è uscita una sillaba. Le labbra si muovevano, lo so, e io mi sforzavo di parlarle, di dire qualcosa, perché in quel momento vedevo il riconoscimento negli occhi di lei. E non volevo assolutamente che mi vedesse in quel modo. Non lì in piedi di fronte a lei, ammutolito, incapace di farmi capire. Ma la lingua continuava a mettersi di mezzo come un ostacolo enorme e avevo la bocca secca.

Finalmente le mie labbra hanno pronunciato un suono. Non quello cui pensavo (m’ero proposto di dire qualcosa di tranquillizzante e di incoraggiante, di dominare la situazione e di cancellare tutto il passato e tutte le sofferenze con poche parole) ma la mia gola costretta ha saputo dire soltanto: «Maaa…»

Nonostante tutte le cose che avevo imparato… nonostante tutte le lingue che parlavo scorrevolmente… una sola cosa riuscivo a dire a lei che, in piedi sulla veranda, mi fissava: «Maaaaa». Come un agnello dalla bocca secca di fronte alla mammella.

Mia madre si è asciugata la fronte con il dorso del braccio, guardandomi accigliata, come se non riuscisse a vedermi bene. Mi sono fatto avanti superando il cancello, entrando nel vialetto d’accesso e avvicinandomi agli scalini. Lei ha indietreggiato.

Non sapevo bene se mi avrebbe riconosciuto, ma a un tratto ha ansimato: «Charlie!…» Non ha gridato il mio nome né lo ha bisbigliato. Si è limitata ad ansimare come si potrebbe fare emergendo da un sogno.

«Ma’…» Ho incominciato a salire gli scalini. «Sono io.»

Il mio movimento l’ha spaventata e ha fatto un passo indietro, rovesciando il secchio dell’acqua e sapone; le sudice bolle si sono sparse giù per gli scalini. «Che cosa stai facendo qui?»

«Volevo soltanto vederti… parlarti…»

Poiché la lingua seguitava a incepparmisi, la voce mi è uscita dalla gola diversa, con un greve tono lamentoso, come avrei potuto esprimermi molto tempo fa. «Non andartene», l’ho supplicata. «Non sfuggirmi.»

Ma era ormai entrata in anticamera e aveva chiuso la porta di casa. Un attimo dopo l’ho veduta sbirciarmi da dietro la tendina bianca trasparente sul finestrino della porta, con gli occhi atterriti. Dietro la tendina le labbra di lei si muovevano senza suono. «Vattene! Lasciami in pace!»

Perché? Chi era lei per respingermi in quel modo? Con quale diritto mi scacciava?

«Fammi entrare! Voglio parlarti! Fammi entrare!» Ho picchiato così forte sul vetro della porta da farlo incrinare e l’incrinatura, come una tela di ragno, mi ha imprigionato la pelle per un momento trattenendola saldamente. Lei deve aver creduto che fossi impazzito e che mi trovassi lì per farle del male. Si è allontanata dalla porta ed è fuggita lungo il corridoio.

Ho spinto ancora. Il gancio ha ceduto, e impreparato all’improvvisa mancanza di resistenza ho perduto l’equilibrio e sono caduto nell’ingresso. La mano mi sanguinava a causa del vetro che avevo rotto e non sapendo che altro fare me la sono infilata in tasca per evitare che il sangue imbrattasse il linoleum appena lavato.

Mi sono fatto avanti andando oltre le scale vedute così spesso negli incubi. Molte volte ero stato inseguito, su per quella lunga e stretta scala, da demoni che mi afferravano le gambe e mi trascinavano giù nella cantina sottostante, mentre mi sforzavo di urlare senza voce, strozzandomi con la mia stessa lingua e imbavagliandomi con il silenzio. Come i ragazzi muti alla clinica Warren.

Quelli che abitavano al primo piano, i nostri padroni di casa, i Meyer, erano sempre stati buoni con me. Mi davano dolciumi e mi lasciavano andare in cucina a giocare con il cane. Avrei voluto rivederli, ma senza che nessuno me lo avesse detto sapevo ch’erano morti e che ora di sopra abitavano estranei. Quella strada era ormai chiusa in eterno per me.

In fondo al corridoio, la porta attraverso la quale Rose aveva trovato scampo era chiusa a chiave, e per un momento sono rimasto immobile… indeciso.

«Apri.»

Per tutta risposta mi sono giunti gli uggiolii acuti di un cagnolino. La cosa mi ha colto di sorpresa.

«E va bene», ho detto, «non voglio farti alcun male, ma sono venuto da lontano e non me ne andrò senza averti parlato. Se non apri quella porta la sfondo».

L’ho udita dire: «Zitto, Nappie… Vieni qui, va’ in camera da letto». Un momento dopo ho sentito lo scatto della serratura. La porta si è aperta e lei è rimasta lì sulla soglia a guardarmi.

«Ma’», ho bisbigliato, «non farò nulla. Voglio soltanto parlarti. Devi capire che non sono più lo stesso. Sono cambiato. Adesso sono normale. Non te ne rendi conto? Non sono più mentalmente ritardato. Non sono più un deficiente. Sono come tutti gli altri, un essere normale… proprio come te e Matt e Norma».

Ho cercato di continuare a parlare, farfugliando, in modo che lei non chiudesse la porta. Ho cercato di dirle tutto, in una volta sola. «Mi hanno cambiato, mi hanno sottoposto a un’operazione e sono riusciti a fare di me un essere diverso, come tu hai sempre desiderato che fossi. Non lo hai letto nei giornali? Un nuovo esperimento scientifico che muta la capacità di intelligenza, e io sono il primo sul quale è stato tentato. Non riesci a capire? Perché mi stai guardando in quel modo? Sono intelligente, adesso, più intelligente di Norma o dello zio Herman o di Matt. So cose che ignorano anche i professori universitari. Parlami! Puoi essere fiera di me, adesso, e andarlo a dire a tutti i vicini. Non dovrai più nascondermi in cantina quando verrà gente. Raccontami, raccontami come stavano le cose quando ero un bimbetto, non voglio altro. Non ti farò alcun male. Non ti odio. Ma devo sapere di me, devo capirmi prima che sia troppo tardi. Non te ne rendi conto? Non posso essere un individuo completo se non capisco me stesso, e tu sei la sola persona al mondo che possa aiutarmi in questo momento. Fammi entrare e lascia che mi metta a sedere per un po’.»

Era il mio modo di parlare, più che quanto dicevo, ad ipnotizzarla. Rimaneva lì sulla soglia e mi fissava. Senza neppure accorgermene ho tirato fuori dalla tasca la mano insanguinata e l’ho stretta a pugno mentre supplicavo. Quando l’ha veduta la sua espressione si è raddolcita.

«Ti sei fatto male…» Non compativa me, necessariamente. Era la stessa compassione che avrebbe potuto provare per un cane con la zampa rotta o per un gatto graffiato in una zuffa. Non si comportava così perché ero il suo Charlie, ma nonostante ciò.