«Vieni a lavarti. Ho bende e tintura di iodio.»
L’ho seguita fino all’acquaio screpolato con lo scolapiatti storto, l’acquaio al quale mi aveva lavato tante volte la faccia e le mani quando rientravo dal cortile o quando ero pronto per andare a tavola o a letto. Mi ha osservato mentre mi rimboccavo le maniche. «Non avresti dovuto rompere il vetro. La padrona di casa andrà in bestia e io non ho soldi abbastanza per pagarlo.» Poi, come spazientita dai miei movimenti, mi ha tolto di mano il sapone e mi ha lavato la mano. Lavandomela si è concentrata a tal punto che ho taciuto, timoroso di rompere l’incantesimo. Di tanto in tanto faceva schioccare la lingua o sospirava: «Charlie, Charlie, non fai che combinare guai. Quando imparerai a badare a te stesso?» Era tornata indietro di venticinque anni, quando mi considerava ancora il suo piccolo Charlie ed era disposta a battersi per assicurarmi un posto nel mondo.
Una volta lavato via il sangue, e dopo avermi asciugato la mano con tovagliolini di carta, mi ha guardato in viso e gli occhi le si sono fatti tondi di spavento. «Oh, Dio mio!» ha esclamato, indietreggiando.
Mi sono rimesso a parlare, con dolcezza, in tono persuasivo, per convincerla che non doveva aver paura e che non intendevo farle alcun male. Ma mentre parlavo capivo che i suoi pensieri vagavano altrove. Si è guardata intorno con aria vaga, si è portata la mano alla bocca e si è lasciata sfuggire un gemito guardandomi di nuovo. «La casa è tanto in disordine», ha detto. «Non aspettavo nessuno. Guarda quelle finestre e quello zoccolo, laggiù.»
«Non ha importanza. Ma’, non stare a preoccupartene.»
«Devo tirare di nuovo a cera i pavimenti. Bisogna che tutto sia pulito.» Ha notato impronte di dita sulla porta e, preso lo straccio, le ha tolte. Quando ha rialzato gli occhi e mi ha veduto intento a guardarla si è accigliata. «È venuto per la bolletta della luce?»
Prima che avessi potuto rispondere negativamente ha agitato un dito rimproverandomi. «Intendo mandare un assegno il primo del mese, ma mio marito è fuori città per affari. Ho già detto a tutti che non devono preoccuparsi per i soldi, perché mia figlia prenderà la paga questa settimana, e allora potremo pagare i conti. Non c’è bisogno quindi di venirmi a seccare per i soldi.»
«È la sua unica figlia? Non ha avuto altri bambini?»
Ha trasalito, poi il suo sguardo si è perduto lontano. «Avevo un figlio. Tanto intelligente che tutte le altre madri ne erano gelose. E così gli fecero il malocchio. Lo chiamavano quoziente d’intelligenza, ma era il malocchio. Altrimenti sarebbe diventato un grand’uomo. Era davvero intelligentissimo… eccezionale, dicevano. Sarebbe potuto diventare un genio…»
Ha preso lo spazzolone. «Ora mi scusi. Devo preparare tutto. Mia figlia ha invitato a cena un giovanotto e devo pensare alle pulizie.» Si è inginocchiata e ha cominciato a strofinare il pavimento già lucido. Non ha più alzato gli occhi.
Borbottava tra sé e sé, adesso, e io mi sono messo a sedere al tavolo di cucina. Avrei aspettato che si riprendesse, fino a riconoscermi e a capire chi ero. Non potevo andarmene fino a quando non si fosse resa conto ch’ero il suo Charlie. Qualcuno doveva pur capire.
Si era messa a canticchiare malinconicamente, ma a un certo momento si è interrotta, con lo strofinaccio a mezz’aria tra il secchio e il pavimento, quasi fosse divenuta a un tratto consapevole della mia presenza alle sue spalle.
Si è voltata, con la faccia stanca e gli occhi lustri, e ha reclinato la testa. «Come è possibile? Non capisco. Mi avevano detto che non sarebbe mai stato possibile cambiarti.»
«Mi hanno sottoposto a un intervento chirurgico ed è stato questo a cambiarmi. Ora sono famoso. Hanno sentito parlare di me in tutto il mondo. Sono intelligente, adesso. Ma’, so leggere e scrivere, e so…»
«Dio sia ringraziato», ha bisbigliato lei. «Le mie preghiere… durante tutti questi anni ho creduto che non mi ascoltasse, e invece mi ascoltava continuamente, aspettando che con il tempo si compisse la sua volontà.»
Si è asciugata gli occhi con il grembiule, e quando le ho messo un braccio sulle spalle si è abbandonata al pianto appoggiata a me. Tutta la sofferenza se n’è andata e sono stato contento di essere venuto.
«Devo dirlo a tutti», ha bisbigliato lei sorridendo, «a tutti i maestri a scuola. Oh, aspetta di vedere che faccia faranno quando glielo dirò. E ai vicini. E allo zio Herman. Come sarà contento! E aspetta che tornino a casa tuo padre e tua sorella! Oh, come sarà contenta Norma di rivederti! Non ne hai idea».
Mi stringeva, parlando eccitata, facendo progetti per la nuova vita che ci saremmo goduti insieme. Non ebbi il coraggio di ricordarle che quasi tutti gli insegnanti della mia fanciullezza se n’erano andati da quella scuola da un pezzo, che lo zio Herman era morto anni prima e che mio padre l’aveva abbandonata. L’incubo di tutti quegli anni era stato abbastanza doloroso. Volevo vederla sorridere e sapere ch’ero stato io a renderla felice. Per la prima volta in vita mia facevo affiorare un sorriso sulle sue labbra.
Poi, dopo qualche momento, si è interrotta cogitabonda, come se avesse ricordato qualcosa. Ho avuto l’impressione che la sua mente stesse per smarrirsi. «No!» ho urlato, riportandola con un sussulto alla realtà. «Aspetta, Ma’! C’è qualcos’altro. Qualcosa che voglio darti prima di andarmene.»
«Andartene? Non puoi andartene, adesso.»
«Devo andare, Ma’. Ho molte cose da fare. Ma ti scriverò e ti manderò soldi.»
«Ma quando tornerai?»
«Non lo so… ancora. Ma prima di andarmene voglio darti questo.»
«È una rivista?»
«Non proprio. È una relazione scientifica che ho scritto io. Molto tecnica. Guarda, è intitolata L’effetto Algernon-Gordon. Qualcosa che ho scoperto e che in parte prende il nome da me. Voglio che tu ne tenga una copia per far vedere alla gente che tuo figlio è diventato qualcosa di meglio di un tonto, tutto sommato.»
Ha preso il dattiloscritto e mi ha guardato con timore reverenziale. «È… è il tuo nome. Lo sapevo che sarebbe andata così. L’ho sempre detto che un giorno sarebbe successo. Ho fatto tutto quel che potevo. Tu eri troppo piccolo per potertene ricordare, ma ho fatto quanto stava in me. Dicevo a tutti che saresti andato all’università e diventato un professionista e che avresti lasciato il tuo segno nel mondo. Ridevano, ma io lo dicevo lo stesso.»
Mi ha sorriso tra le lagrime e poi, un momento dopo, già non mi stava guardando più. Ha preso lo straccio e si è messa a lavare l’intelaiatura intorno alla porta di cucina, canticchiando, più allegramente mi è parso, come in sogno.
Il cane ha ricominciato ad abbaiare. La porta di casa si è aperta e chiusa e una voce ha gridato: «Okay, Nappie. Okay, sono io». Il cane balzava eccitato contro la porta della camera da letto.
Ero furente perché mi trovavo in trappola. Non volevo vedere Norma. Non avevamo niente da dirci e non volevo che mi guastasse il piacere della visita. La porta di servizio non esisteva. Il solo modo per andarmene consisteva nell’uscire dalla finestra e scavalcare la recinzione del cortile; ma qualcuno avrebbe potuto scambiarmi per un ladro.
Mentre sentivo la chiave infilata nella toppa ho bisbigliato a mia madre, non so perché: «Norma è arrivata a casa». Le ho toccato il braccio, ma non mi ha udito. Era troppo intenta a canticchiare lavando la porta.
L’uscio di casa si è aperto. Norma mi ha visto e si è accigliata. A tutta prima non mi ha riconosciuto… regnava la penombra, la luce non era stata accesa. Dopo aver posato il sacchetto con gli acquisti ha fatto scattare l’interruttore. «Chi è lei?» Ma prima che avessi potuto risponderle si è portata la mano alla bocca e si è addossata alla porta.