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«Charlie!» Lo ha detto come mia madre, in un ansito. Aveva anche lo stesso aspetto di mia madre, un tempo… lineamenti minuti e affilati, faceva pensare a un grazioso uccelletto. «Charlie! Dio mio che spavento! Avresti potuto avvertirmi. Avresti dovuto telefonare… Non so che cosa dire…» Ha guardato mia madre, seduta sul pavimento accanto all’acquaio. «Sta bene? Non l’avrai spaventata o qualcosa di simile…»

«È rientrata in sé per qualche tempo. Abbiamo parlato un po’.»

«Mi fa piacere. Non ricorda più molto, ormai. È la vecchiaia… la senilità. Il dottor Portman vuole che la metta in un ospizio, ma io non posso. Non sopporto di pensarla in uno di quegli istituti.» Ha aperto la porta della camera da letto per lasciar uscire il cane e quando la bestiola ha spiccato balzi uggiolando di gioia, l’ha presa tra le braccia, stringendola a sé. «Questo con la mamma non posso farlo.» Poi mi ha sorriso con un’aria incerta. «Ma che sorpresa. Non lo avrei mai immaginato. Lasciati guardare. Non ti avrei riconosciuto di certo; ti sarei passata accanto per la strada senza riconoscerti. Sei così diverso.» Ha sospirato. «Sono contenta di averti rivisto, Charlie.»

«Davvero? Non credevo che volessi rivedermi.»

«Oh, Charlie!» mi ha preso le mani tra le sue. «Non dir questo. Sono davvero contenta di vederti. Ti aspettavo. Non sapevo quando, ma ero certa che un giorno saresti tornato. Da quando ho letto della tua fuga a Chicago.» Si è fatta indietro per guardarmi meglio. «Non sai quanto ho pensato a te, quante volte mi sono domandata dove fossi e che cosa stessi facendo. Fino al giorno in cui quel professore venne qui, quando fu? nello scorso marzo? soltanto sette mesi fa? non sapevo che tu fossi ancora vivo. La mamma mi aveva detto ch’eri morto alla Warren. E io ne ero sempre stata convinta. Quando mi dissero che eri vivo e che avevano bisogno di te per l’esperimento non seppi che cosa fare. Il professor… Nemur? Si chiama così?… non volle permettermi di parlarti. Temeva di turbarti prima dell’operazione. Ma quando lessi sui giornali che l’esperimento era riuscito e che tu eri diventato un genio… oh, povera me!… non puoi immaginare che cosa provai… Lo dissi a tutti i colleghi d’ufficio e alle ragazze del Circolo del bridge. Mostrai la tua fotografia pubblicata dai giornali e dissi a tutti che un giorno saresti tornato a farci visita. E sei venuto. Sei venuto sul serio. Non ci hai dimenticate.»

Mi ha abbracciato di nuovo. «Oh, Charlie, Charlie… è così meraviglioso scoprire tutto a un tratto che ho un fratello maggiore. Tu non puoi figurartelo. Siediti… ti preparo qualcosa da mangiare. Devi raccontarmi tutto, dirmi che progetti hai. Io… io non so dove cominciare a farti domande. Devo sembrarti ridicola… come una ragazza la quale ha appena saputo che suo fratello è un eroe o un divo del cinema o qualcosa di simile.»

Ero confuso. Non mi ero aspettato una simile accoglienza da Norma. Non mi era mai passato per la mente che tutti quegli anni trascorsi in solitudine con mia madre avessero potuto cambiarla. Eppure era inevitabile. Non si trattava più della marmocchia viziata delle mie reminiscenze. Era cresciuta, era diventata cordiale, comprensiva e affettuosa.

Abbiamo parlato. È stato ironico conversare con mia sorella, parlare insieme di nostra madre, la quale si trovava nella stessa stanza, come se non fosse stata presente. Ogni volta che Norma accennava alla loro vita in comune io guardavo per vedere se Rose stesse ascoltando, ma era profondamente immersa in un mondo tutto suo e sembrava che non capisse la nostra lingua o che tutto ciò non la riguardasse più. Si aggirava per la cucina come un fantasma, prendendo oggetti, riordinando, senza mai venirci tra i piedi. Era spaventoso.

Sono stato a guardare mentre Norma dava da mangiare al cane. «Sicché, finalmente sei riuscita ad averlo. Nappie… è l’abbreviativo di Napoleone, vero?»

Lei si è raddrizzata accigliandosi. «Come lo sai?»

Le ho parlato delle mie reminiscenze: di quella volta che aveva portato a casa la prova d’esame scritta sperando di avere il cane, che invece le era stato negato da Matt. Man mano che gliene parlavo, il cipiglio diventava sempre più accentuato.

«Non me ne ricordo affatto. Oh, Charlie, fui così meschina con te?»

«C’è un ricordo che mi incuriosisce. Non so bene, a dire il vero, se sia un autentico ricordo o un sogno, o se mi sono limitato a immaginare ogni cosa. Fu l’ultima volta che giocammo insieme in buona armonia. Ci trovavamo nello scantinato e ci divertivamo con paralumi in testa, fingendo di essere coolies cinesi… saltando su e giù su vecchi materassi. Tu avevi sette od otto anni, credo, e io circa tredici. E a quanto ricordo tu saltasti giù dal materasso e battesti la testa contro il muro. Non fu un colpo molto forte, appena un piccolo urto, ma Pa’ e Ma’ scesero di corsa perché strillavi e dicevi che stavo cercando di ucciderti… La mamma rimproverò Matt perché non mi aveva sorvegliato, perché ci aveva lasciati soli insieme, e mi frustò con una cinghia fino a farmi quasi svenire. Te ne ricordi? Accadde davvero così?»

Norma era affascinata dalla mia descrizione del ricordo come se avesse destato immagini assopite. «È tutto così vago. Sai, credevo di averlo sognato. Rammento che ci eravamo messi in testa paralumi e saltavamo su e giù dai materassi.» Ha guardato fuori della finestra.

«Ti odiavo perché con te facevano sempre un mucchio di storie. Non ti sculacciavano mai per non aver fatto bene il compito o per non aver preso i voti migliori. Tu marinavi quasi sempre la scuola e non facevi che giocare, mentre per me la scuola diventava sempre più difficile. Oh, come ti odiavo. A scuola gli altri bambini scribacchiavano parole e tracciavano disegni sulla lavagna. Un ragazzo con un berretto d’asino in testa e sotto Il fratello di Norma. E scrivevano anche insulti sul marciapiede nel cortile… La sorella del deficiente e La famiglia di Gordon il Tonto. E poi un giorno, quando non fui invitata alla festa di compleanno di Emily Raskin, capii ch’era a causa tua. E quella volta che giocammo insieme nello scantinato con i paralumi in testa volli vendicarmi.» Si è messa a piangere, a questo punto. «Così mentii e dissi che mi avevi fatto male apposta. Oh, Charlie, com’ero stupida… che marmocchia viziata. Mi vergogno tanto…»

«Non rimproverarti. Doveva essere difficile tener testa agli altri bambini. Per me questa cucina era il mio mondo… insieme a quella stanza laggiù. Tutto il resto non aveva importanza, purché qui mi sentissi al sicuro. Tu invece dovevi affrontare il resto del mondo.»

«Perché ti mandarono via, Charlie? Non avresti potuto restare qui e vivere con noi? Me lo sono sempre domandata. Ogni volta che ne ho parlato con lei ha detto sempre che fu per il tuo bene.»

«In un certo senso ha ragione.»

Ha scosso la testa. «Non ti volle più a causa mia, non è vero? Oh, Charlie, perché deve essere stato così? Perché ci è accaduto tutto questo?»

Non sapevo come risponderle. Avrei voluto poterle dire che, come la famiglia di Atreo o come Cadmo, scontavamo i peccati dei nostri padri o realizzavamo le predizioni di un antico oracolo greco.

Ma non v’era alcuna risposta che potessi dare a lei o a me stesso.

«Ora è tutto finito», ho detto. «Sono contento di averti rivista. Rende la situazione un po’ più facile.»

A un tratto mi ha afferrato il braccio. «Charlie, tu non sai che cosa ho passato in tutti questi anni con lei. L’appartamento, questa strada, il mio lavoro. È stato tutto un incubo, tornare a casa ogni giorno domandandomi, ci sarà ancora? avrà fatto del male a se stessa? e sentendomi colpevole perché pensavo cose simili.»

Mi sono alzato e ho lasciato che appoggiasse il capo alla mia spalla e piangesse. «Oh, Charlie, sono contenta che tu sia tornato, adesso. Avevamo bisogno di qualcuno. Sono così stanca…»