Nel nucleo vedo di nuovo la luce, un’apertura nella più tenebrosa delle caverne, ora minuscola e remota, veduta attraverso un telescopio capovolto, brillante, accecante, scintillante, e una volta di più il fiore dai molti petali (loto vorticoso… che galleggia accanto all’imboccatura dell’inconscio). All’imboccatura di quella caverna troverò la risposta, se oserò tornare indietro e tuffarmi attraverso a essa nella grotta di luce al di là. Non ancora!
Ho paura. Non della vita o della morte o del nulla, ma di sprecare la vita come se non fossi mai esistito. E mentre mi avvio attraverso il varco, sento la pressione intorno a me che mi spinge con moti violenti, simili a onde verso l’imboccatura della caverna.
È troppo piccola! Non posso passare!
E improvvisamente sono scaraventato contro le pareti, ancora e ancora, e costretto attraverso il varco dove la luce minaccia di bruciarmi gli occhi. Di nuovo, so che perforerò la crosta per emergere in quella sacra luce. È più di quanto possa sopportare. Dolore come non l’ho provato mai, e gelo, e nausea, e il gran ronzio che batte sopra il mio capo come migliaia d’ali. Apro gli occhi, accecato dalla luce intensa. E flagello l’aria, e tremo e grido.
Sono emerso dalla cosa in seguito all’insistenza di una mano che mi scrollava energicamente. La mano del dottor Strauss.
«Dio sia ringraziato», ha detto quando l’ho guardato negli occhi. «Mi avevi preoccupato.»
Ho scosso la testa. «Sto benissimo.»
«Credo che per oggi possa bastare.»
Mi sono alzato e ho barcollato mentre ritrovavo la prospettiva. La stanza sembrava piccolissima. «Non soltanto per oggi», ho detto. «Secondo me non dovrei venire ad altre sedute. Non voglio vedere altro.»
Era turbato, ma non ha cercato di dissuadermi. Ho preso cappello e cappotto e me ne sono andato.
E ora… le parole di Platone mi scherniscono:
«…gli uomini della caverna direbbero di lui che in alto è salito e in basso è disceso senza gli occhi…»
5 ottobre Mettermi a sedere per battere a macchina questi rapporti è difficile, e io non so pensare senza il registratore in funzione. Continuo a rimandare per quasi tutto il giorno, ma so quale importanza riveste la cosa e devo farlo. Ho detto a me stesso che non cenerò finché non mi sarò messo a tavolino per scrivere qualcosa… qualsiasi cosa.
Il professor Nemur mi ha mandato di nuovo a chiamare stamane. Mi voleva al laboratorio per alcuni test, quelli che facevo un tempo. A tutta prima mi son detto ch’era giusto, perché continuano a pagarmi ed è importante che la documentazione sia completa, ma quando sono arrivato alla Beekman e ho cominciato a sottopormi alle prove con Burt, mi sono reso conto che sarebbe stato troppo per me.
Anzitutto si è trattato del labirinto con il foglio di carta e la matita. Ricordavo come andavano le cose quando avevo imparato a percorrerlo rapidamente e quando gareggiavo con Algernon. Mi sono reso subito conto che adesso mi occorreva molto più tempo per percorrere il labirinto. Burt aveva già teso la mano per ritirare il foglio, ma io l’ho strappato, invece, e ho gettato i pezzi nel cestino della carta straccia.
«Basta. Sono stufo di percorrere il labirinto. Mi trovo in un vicolo cieco, e non c’è altro da dire.»
Temeva che me ne andassi, e allora mi ha calmato. «D’accordo, Charlie. Soltanto, sta’ tranquillo.»
«Che significa ’sta’ tranquillo? Lei non lo sa.»
«No, ma posso immaginarlo. Siamo tutti molto turbati.»
«Se la tenga, la sua comprensione. Mi lasci in pace e basta.»
Era imbarazzato, e allora mi sono reso conto che la colpa non era sua e che mi stavo comportando malissimo nei suoi riguardi. «Mi scusi lo scatto», ho detto. «Come le vanno le cose? Ha terminato la tesi?»
Ha annuito. «La sto facendo ribattere a macchina. Mi laureerò in febbraio.»
«Bravo.» Gli ho battuto la mano sulla spalla per dimostrargli che non ce l’avevo con lui. «Insista. Non c’è niente che possa paragonarsi alla cultura. Senta, dimentichi quello che ho detto prima. Farò tutto quello che vuole; soltanto, non più labirinti, ecco.»
«Be’, Nemur vuole una prova di Rorschach.»
«Per sapere che cosa sta accadendo nel profondo? Che cosa si aspetta di trovare?»
Dovevo avere l’aria sconvolta perché ha cominciato a fare marcia indietro.
«Non è indispensabile. Ti trovi qui volontariamente. Se non vuoi…»
«Va bene, va bene. Faccia pure. Distribuisca le schede. Ma non mi dica che cosa accerterà.»
Non era necessario.
Conoscevo abbastanza la prova di Rorschach per sapere che non contava quel che si vedeva nelle schede ma il modo di reagire a esse.
«La prova non è valida», ho detto. «So quello che lei sta cercando. Conosco il tipo di reazioni che dovrei avere per creare un certo quadro di quello che è la mia mente. Non devo fare altro che…»
Ha alzato gli occhi su di me, in attesa.
«Non devo fare altro…»
Ma poi mi ha colpito come un pugno su un lato della testa la consapevolezza che non ricordavo che cosa dovevo fare. Era come se avessi guardato l’intera cosa con chiarezza sulla lavagna della mia mente ma. ora che mi apprestavo a leggerla, in parte era stata cancellata e il resto non aveva alcun senso.
A tutta prima mi sono rifiutato di crederci. Ho esaminato le schede in preda al panico, così in fretta da non riuscire a parlare. Avrei voluto lacerare le macchie d’inchiostro per far sì che si rivelassero. In qualche punto di quelle macchie d’inchiostro v’erano risposte che avevo saputo soltanto pochi momenti prima. Non proprio nelle macchie di inchiostro, ma in quella parte della mia mente che avrebbe dato loro una forma e un significato e proiettato la mia impronta su di esse. Non ne ero capace. Tutto era scomparso.
«Questa è una donna…» ho detto, «…inginocchiata e intenta a lavare pavimenti. Cioè, no… è un uomo che impugna un coltello». E nel momento stesso in cui pronunciavo queste parole mi sono reso conto di quel che dicevo e, interrompendomi, sono partito in un’altra direzione. «Due persone che si contendono qualcosa… una bambola, per esempio… ed entrambe stanno tirando, per cui sembra che la romperanno in due e… no!… sono piuttosto due facce che si fissano attraverso la finestra e…»
Ho spazzato via le schede dal tavolo e mi sono alzato.
«Non più prove. Basta con le altre prove.»
«Sta bene, Charlie. Per oggi basta.»
«Non soltanto per oggi. Qui non ci tornerò più. Qualsiasi cosa rimanga in me che possa esserle utile, la troverà nei rapporti sui progressi. Ho finito di percorrere il labirinto. Non sono più una cavia. Ho tatto abbastanza. Adesso voglio essere lasciato in pace.»
«Va bene, Charlie, Capisco.»
«No, non capisce, perché non sta succedendo a lei e nessuno può capire tranne me. Non gliene voglio. Lei ha il suo lavoro da sbrigare e la sua laurea da prendere, e… oh, sì, non me lo dica, so che ha preso parte a questo esperimento soprattutto per amore dell’umanità, ma in ogni modo ha ancora la sua vita da vivere, e il caso vuole che non siamo alla stessa altezza. Io ho superato il suo piano salendo, e ora me lo lascio indietro scendendo, e non credo che riprenderò ancora questo ascensore. Pertanto, salutiamoci.»
«Non credi che dovresti parlare con il dottor…»
«Saluti tutti per me, vuole? Non me la sento di affrontare di nuovo nessuno di loro.»
Prima che avesse potuto aggiungere qualche altra cosa, sono uscito dal laboratorio, ho preso l’ascensore e sono uscito dalla Beekman per l’ultima volta.
7 ottobre Strauss ha cercato di parlarmi ancora stamane, ma non gli ho aperto la porta. Voglio essere lasciato in pace, adesso.