Mi sono alzato, ho chiuso gli occhi e ho veduto Charlie, me stesso, a sei o sette anni seduto alla tavola da pranzo con un libro di scuola, mentre imparava a leggere e ripeteva più e più volte le parole con mia madre seduta accanto a lui, accanto a me…
«Riprova.»
«Guarda Jack. Guarda Jack correre. Guarda Jack guarda.»
«No! Non Guarda Jack guarda! C’è scritto Corri Jack corri.» Indica le parole con il dito duro e calloso.
«Guarda Jack. Guarda Jack correre. Corri Jack guarda.»
«No! Non ti stai applicando. Riprova!»
Riprova… riprova… riprova…
«Lascia in pace il bambino. Lo hai atterrito.»
«Deve imparare. È troppo pigro per concentrarsi.»
Corri Jack corri… corri Jack corri… corri Jack corri… corri Jack corri…
«È più tardo degli altri bambini. Dàgli tempo.»
«È normale. Non c’è niente che non sia a posto in lui. È soltanto pigro. Dovrà imparare.»
Corri Jack corri… corri Jack corri… corri Jack corri… corri Jack corri…
E poi, nell’alzare gli occhi dalla tavola, mi è parso di aver veduto me stesso, attraverso gli occhi di Charlie, tenere in mano Il paradiso perduto e mi sono accorto che stavo spezzando la rilegatura con la pressione di entrambe le mani, come se avessi voluto strappare in due il libro. Ne ho lacerato il dorso, ho strappato una manciata di pagine e le ho gettate insieme al resto nell’angolo opposto della stanza dove si trovano i dischi rotti.
Devo tentare di avvinghiarmi ad alcune delle cose che ho imparato. Ti prego, Dio, non togliermi tutto.
10 ottobre Di solito, una volta scesa la notte, vado a fare passeggiate, vagabondo per la città. Non so perché. Per vedere facce, suppongo. Ieri sera non mi è riuscito di ricordare dove abito. Un poliziotto mi ha accompagnato a casa. Ho la strana sensazione che tutto questo mi sia già accaduto… molto tempo fa. Non voglio scriverlo, ma seguito a ricordare a me stesso che sono il solo al mondo in grado di descrivere quello che accade quando le cose vanno in questo modo.
Invece di camminare galleggiavo nello spazio, non nitido e ben definito, ma con una pellicola grigia dappertutto. So quello che mi sta accadendo, ma non posso farci niente. Cammino oppure mi limito a restare ritto sul marciapiede e a guardar passare ia gente. Alcuni mi sbirciano e altri no, ma nessuno mi dice nulla… tranne un tale che si è avvicinato una notte e mi ha domandato se volevo una donna. Mi ha accompagnato in un posto. Voleva dieci dollari anticipati e glieli ho dati, ma non è più tornato.
E allora ho ricordato quanto ero stato stupido.
11 ottobre Quando sono rientrato nel mio appartamento, stamane, vi ho trovato Alice addormentata sul divano. Tutto era stato riordinato e dapprima ho creduto di avere sbagliato porta, ma poi ho visto che non aveva toccato i dischi rotti o i libri lacerati. Il pavimento cigolava e lei si è destata e mi ha guardato. «Ciao», ha riso. «Mi sembri un barbagianni.» «Non un barbagianni. Un dodo, piuttosto. Uno stupido dodo. Come sei entrata qui dentro?»
«Passando per la scala antincendio. Dall’appartamento di Fay. Sono stata da lei per avere tue notizie e mi ha detto che era preoccupata… Sembra che ti stia comportando in modo strano… che disturbi i vicini. Così ho deciso di farmi viva. Ho riordinato un po’. Mi son detta che non ti sarebbe dispiaciuto.»
«Mi dispiace… moltissimo. Voglio che non venga nessuno qui a compatirmi.»
È andata allo specchio a pettinarsi. «Non mi trovo qui per compatirti. Ma perché compatisco me stessa.»
«Che cosa vorresti dire?»
«Le mie parole non vogliono dire nulla», ha alzato le spalle. «Sono, semplicemente… come una poesia. Volevo parlarti.»
«Che cosa è successo al giardino zoologico?»
«Oh, smettila, Charlie. Niente schermaglie con me. Ho aspettato anche troppo che tu ti decidessi a venire da me. Ho deciso di venire io da te.»
«Perché?»
«Perché c’è ancora tempo. E voglio passarlo con te.»
«Che cos’è? Una canzonetta?»
«Charlie, non ridere di me.»
«Non sto ridendo. Ma non posso permettermi di passare il tempo con qualcuno… ne rimane appena a sufficienza per me.»
«Non posso credere che tu voglia rimanere completamente solo.»
«È così.»
«Siamo stati ben poco insieme prima di perderci di vista. Avevamo cose di cui parlare e cose da fare insieme. Non è durato molto a lungo, ma è stato qualcosa. Sta’ a sentire, lo sapevamo che questo sarebbe potuto accadere. Non era un segreto. Io non me ne sono andata, Charlie, ho soltanto aspettato. Tu ti trovi di nuovo al mio livello di intelligenza, vero?»
Ho iniziato un andirivieni nell’appartamento, tempestando. «Ma questa è una pazzia. Non c’è nulla in cui sperare nell’avvenire. Io non oso consentire a me stesso di pensare al futuro… ma soltanto al passato. Tra pochi mesi o settimane o giorni tornerò alla Warren. Tu non potrai seguirmi laggiù.»
«No», ha riconosciuto, «e probabilmente non verrò neppure a trovarti. Quando sarai alla Warren farò del mio meglio per dimenticarti; non intendo fingere che sarà diversamente. Ma fino al momento in cui vi andrai non c’è motivo per cui dobbiamo restare soli».
Senza darmi il tempo di obiettare mi ha baciato. Ho atteso, mentre mi sedeva accanto sul divano, il capo appoggiato al mio petto, ma il panico non è sopraggiunto.
Pervaso dal sollievo nel rendermi conto di aver superato una crisi, ho sospirato perché non v’era più nulla a trattenermi. Non era quello il momento di temere o di fingere, poiché non si sarebbe potuto ripetere mai più con nessun’altra. Tutti gli ostacoli erano scomparsi. Ero uscito dal labirinto. L’ho amata con più che con il mio corpo.
Non pretendo di capire il mistero dell’amore, ma questa volta è stato più del puro sesso. Mi sono sentito sollevare dalla oscura cella della mia mente e sono divenuto parte di qualcos’altro, la stessa esperienza di quel giorno sul divano durante la seduta psicanalitica. È stato il primo passo all’esterno verso l’universo, al di là dell’universo, poiché in esso e con esso ci siamo fusi per ricreare e perpetuare lo spirito umano. Espandendoci ed esplodendo all’esterno, e contraendoci e formandoci all’interno, era il ritmo dell’essere, del respiro, del battito cardiaco, del giorno e della notte, e il ritmo dei nostri corpi ha fatto nascere un’eco nella mia mente. Così era stato prima in quella strana visione. La grigia melma si è sollevata dalla mia mente, e attraverso a essa la luce è penetrata nel mio cervello (come è strano che la luce possa accecare!) e il mio corpo è stato riassorbito in un gran mare di spazio, lavato in uno strano battesimo. Ha sussultato, il mio corpo, donando, e ha sussultato, il corpo di lei, accettando.
Così ci siamo amati, e poi la notte si è tramutata in un tacito giorno. E mentre giacevo là con lei ho potuto capire quanto importante fosse l’amore fisico, quanto necessario fosse per noi trovarci l’uno nelle braccia dell’altra, donando e accogliendo. L’universo esplodeva, ciascuna particella lontana da quella adiacente, ci scaraventava in uno spazio oscuro e solitario, strappandoci eternamente l’uno dall’altro… il bambino dall’utero, l’amico dall’amico, allontanandoci l’uno dall’altro, ciascuno lungo il suo itinerario, verso la cassetta, metà di una morte solitaria.
Ma questo era il contrappeso, l’atto di legare e di tenere. Come quando gli uomini, per non essere spazzati in mare dalla tempesta, si tengono per mano evitando la separazione violenta, così i nostri corpi fondevano un anello della catena umana che ci impediva di essere spazzati via nel nulla.