Rory Harper
Fondi di caffè
Il gatto del vicinato non lo stava aspettando come al solito al termine della sua corsa mattutina. Negli ultimi cinque mesi, ogni mattina, quando Martin faceva l’ultimo sforzo in velocità che lo portava ansimante ad approdare nel cortile davanti a casa, quel gatto beige e marrone lo aspettava con aria tranquilla seduto sul cofano della sua Audi. Parlavano e si coccolavano per qualche minuto prima di andarsene ognuno per la propria strada.
Martin dava ormai per scontato quel rituale del mattino.
Si guardò attorno nel giardino, poi tornò indietro per guardare sul marciapiede. Nessuna ombra di gatto.
Mosse un poco il collo per sciogliere i muscoli, poi rattrappì le dita dei piedi, sentendole scavare nelle suole delle scarpe da tennis. Il fiato gli usciva dalla bocca sotto forma di vapore in quella gelida mattina di novembre.
— Qui, bello, vieni. — Niente gatto.
Imitò il verso di un uccellino affamato. Di solito un gatto risponde subito a quel richiamo. Ed anche stavolta funzionò. Da sotto la macchina venne un debole, amichevole miagolio, quasi in sordina. Martin rifece il verso dell’uccellino e il gatto saltò fuori, con la coda spazzolò la ruota anteriore e si strusciò contro la sua caviglia. Lui si chinò per accarezzarlo, ma si ritrasse subito.
Il gatto lo fissava con gli occhi feriti e gli batteva con una zampa insanguinata sulle stringhe della scarpa. I denti gli spuntavano in modo irregolare dalle labbra ferite conferendogli un ghigno terribile. Istintivamente, lo allontanò con una pedata. Il gatto urlò, sorpreso, ritirò le zampe posteriori in modo strano, cercando di restare in equilibrio dopo il colpo ricevuto. A Martin dispiaceva vedere il suo vecchio amico in così brutto stato. Si piegò su un ginocchio e rifece il verso dell’uccellino, ma il gatto non gli rispose dopo essere stato allontanato così bruscamente. Martin non capiva come mai non stesse urlando di agonia, conciato com’era. Invece sembrava stranamente calmo e si muoveva con molta grazia che contrastava con le lacerazioni che aveva sul muso e agli occhi. Si girò muovendosi in modo dinoccolato verso di lui.
Meglio restare accoccolato, si disse, come ti alzi si mettono a correre. Allungò la mano verso di lui. Gli sgusciò tra le dita, ma lui l’afferrò velocemente per la zampa posteriore sinistra. Il gatto si divincolò torcendosi, liberandosi con un miagolio. Martin, sbilanciato, cadde in avanti. Guardò il gatto che balzava giù dal marciapiede e correva in mezzo alla strada. Un’auto verde lo investì di colpo. Martin vide lo sguardo terrorizzato di una ragazzina dietro al parabrezza. Il gatto era stato gettato a diversi metri di distanza, spiaccicandosi contro la quercia che stava tra il marciapiede e una stradina dall’altro lato. I freni stridettero sull’asfalto, poi l’auto accelerò di nuovo. Sorpreso, la vide scomparire dietro l’angolo. Si rimise in piedi goffamente e attraversò la striscia d’asfalto e cemento, dirigendosi verso quell’ammasso senza forma che giaceva sull’erba ombrosa e piena di rugiada.
Senza troppo riflettere si appoggiò a terra con le mani, imbrattandosele della polvere del selciato e del sangue uscito dalle ferite del gatto. Non avrebbe dovuto essere vivo dopo il colpo che aveva ricevuto, ma invece lo era. Placidamente, se ne stava quieto gettato di lato, ansimante. Si piegò sollecito su di lui. Mosse le zampe posteriori quando gli prese la testa con due dita. Nessuna nuova ferita ne aveva deformato il corpo né altro sangue gli aveva sporcato il pelo già umido di umori.
— Bello mio — disse Martin. Poi si guardò in giro come se ci fosse una folla che li stesse premendo. — Lasciateci respirare ragazzi. Andrà tutto bene. State indietro. Sono un dottore. Mi occuperò io di lui.
Il gatto gli leccò un dito, ebbe un tremito e morì.
— Bello mio— ripeté Martin mentre lo scrollava. — Ah, merda… bello mio.
Teresa era già in cucina a preparare la colazione per cui andò dritto in bagno a lavarsi le mani senza essere visto da lei; era la cosa migliore da fare.
— Tutto bene, dottore? — gli chiese lei mettendogli il piatto davanti.
Lui fece il miglior sorriso che potesse fare. — Huh, si, bene. Stavo solo pensando…
— Lo so, che mi ami sempre?
— Uh huh. — Fece finta di mordicchiarle un braccio, lasciandovi una traccia di saliva.
— Ohi… sei un tale animale — disse rassicurata.
L’aveva abbandonato dov’era morto. Non sapeva a chi dovesse dire che gli avevano ammazzato il gatto, e non aveva né il tempo né una pala per seppellirlo; e comunque, gli uomini della nettezza urbana sarebbero passati entro un’ora e l’avrebbero senz’altro visto e gettato nel ventre del loro camion puzzolente, e così sarebbe stato come se quel gatto non fosse mai esistito.
Teresa ricevette una telefonata da un’amica proprio mentre lui stava finendo di vestirsi, perciò pensò di dare un’occhiata a Marco mentre lei terminava di parlare. Le avrebbe dato poi il solito bacio di saluto. Lei aveva già portato Marco nel lettino in camera sua. La luce era debole e nel camino rosseggiavano le ultime braci. Si chinò ad osservare suo figlio. Marco aveva un anno e mezzo. Quando il suo volto entrò nel campo visivo del figlio, questi si riscosse lentamente e gorgogliò. Avevano preso tutte le precauzioni. Amniocentesi e sonogrammi e il monitoraggio costante da parte di uno dei ginecologi del reparto pediatrico del Park Plaza. Lei ne aveva già persi due nei primi tre mesi prima che Marco andasse finalmente in porto. I feti erano tutto sommato normali per cui sembrava che fosse in lei l’incapacità di portarli a termine. Qualcosa di fastidioso, ma che non era troppo preoccupante.
Teresa aveva partorito Marco normalmente: si erano accorti solo qualche giorno prima che sarebbe stato seriamente ritardato. Apparentemente, nulla sembrava danneggiato. Solo che nel suo piccolo cervello non c’erano tutti i giusti collegamenti. Era il tipo di bambino che veniva chiamato “fermacarta” negli ospedali, quando si riferivano a quelli di gente che non conoscevano. Una piccola malformazione cardiaca assicurava che sarebbe stato un peso per la società o per chiunque altro, per non più di altri dieci anni. Non sarebbe mai stato considerato idoneo per un trapianto cardiaco. Il piccolo brancolava verso Martin tendendogli le manine. Martin si ritrasse sfregandosi il graffio che il gatto gli aveva procurato alla mano destra. Fissò il caminetto nel quale ancora fiammeggiavano i carboni nel loro letto di cenere e non pensò a nulla. Quando Teresa entrò, si sforzò di premere le sue labbra sulla fronte umida del figlio prima di lasciare la stanza con lei.
Sulla strada verso l’ospedale, Martin rimase incastrato in un ingorgo in mezzo a una fila interminabile di automezzi. Gettò uno sguardo su di un’auto in una strada laterale: l’uomo alla guida gli sorrise e si voltò dall’altra parte. Aveva una brutta ferita, ancora aperta, che gli partiva dalla tempia e correva giù sino alla guancia. Il sangue gli gocciolava sulla spalla della giacca. Martin lo fissò. Il sorriso dell’uomo si spense, si mosse ancora a disagio e guardò altrove. La fila si mise in moto e quella macchina svoltò a destra.
Si fermò nel parcheggio riservato ai dipendenti dietro al Pronto Soccorso; afferrò il camice bianco dal sedile posteriore, dalla cui grande tasca destra usciva dondolando il disco d’argento dello stetoscopio. Lo ricacciò dentro e attraversò correndo il salone d’ingresso deserto, dirigendosi verso l’ascensore. Con un po’ di fortuna il dottor Graede sarebbe stato come al solito in ritardo nel fare il giro e quindi non avrebbe notato il suo. Quando arrivò l’ascensore, entrò distrattamente nella cabina e premette il bottone del quinto piano. Dopo un po’, diede un’occhiata all’inserviente che masticava chewingum dietro di lui e al paziente in barella al suo fianco. Era una donna anziana, rugosa e raggrinzita dalla morte. A giudicare dall’aspetto sembrava fosse morta a seguito di una terribile malattia e dopo una lunga sofferenza. Tubercolosi? Enfisema? Sapeva di non essere il miglior diagnostico del Park Plaza, ma poteva sempre provarci. Sotto al lenzuolo la cavità toracica era aperta. Avevano tentato un disperato massaggio a cuore aperto.