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— Lui accennò un sorriso. — Non pensavo stessi diventando una famosa psicologa. Quando ti deciderai ad entrare in psichiatria?

— Col cavolo, la psichiatria. Gli specialisti in trapianti guadagnano cinque volte di più.

— Questa roba mi sta facendo completamente fuori, Rae. Non mi piace molto vedere solo gente morta in giro.

Lei si chinò e lo baciò sulla fronte; poi l’abbracciò.

— Ci credo. — Tirò fuori da una tasca un flaconcino e ne svitò il tappo. Si versò sul palmo della mano un assortimento di capsule e pillole. — Tieni, perché non prendi cinque milligrammi di Valium? Adesso è tutto tranquillo. Fai un riposino. Se non ti è passata quando ti svegli, chiamami, e ti metto in lista per un colloquio con Belton su in neuropsichiatria. Ti farà fare qualche prova o qualcosa del genere in modo di metter insieme le cause oggettive. In privato, senza lasciare traccia. Siamo a metà settimana e stanotte non c’è la luna piena, possiamo tirare avanti anche senza una recluta come te.

— Farò un riposino — disse richiudendole il palmo pieno di pillole. — Senza psicofarmaci. — Le trattenne ancora un poco la mano, poi la lasciò. — Grazie, Rae.

Le si fermò sulla porta. — Andrà tutto bene, dottore. — Sorrise preoccupata. — Mi chiamerai se quando ti svegli ci saranno ancora problemi?

— Sì. Ma penso che starò bene. Grazie.

Rimase nel lettino con gli occhi sbarrati per almeno un’ora, scosso e in tensione. Gli abiti si erano infeltriti per il sudore. Non riusciva a trovare una posizione comoda, ma era troppo nervoso per continuare a spostarsi ancora.

Alla fine trovò abbastanza coraggio per buttarsi giù dal letto. Guardò velocemente da entrambi i lati del salone. Nessuno in vista. Corse per il breve tratto che lo separava dalla porta con la scritta UOMINI. Il piccolo bagno era vuoto. Martin si guardò allo specchio gemendo. Era anche lui definitivamente morto. Si sforzò d’esaminare la sua immagine. Effettivamente non era poi così male. Non era diventato un Vecchio relitto come Rae, ma era sicuramente sulla settantina. II suo volto non poteva essere confuso con quello di una persona vivente, ma avrebbe potuto essere anche peggio. Aveva ancora parecchi capelli, anche se erano ormai completamente bianchi. Il volto non era danneggiato. Alzò le braccia. Erano rugose e con diverse macchie causate sicuramente dal fegato, ma per il resto andavano bene. Si sbottonò la giacca e poi la camicia. Sul petto scarno non c’erano né ferite né orifizi. Nonostante tutto, era abbastanza soddisfatto dell’aspetto del suo cadavere. “Ho l’aspetto di un vecchio signore dall’aria distinta. Il problema è che ho ancora queste allucinazioni!” Ma sapeva che non si trattava di allucinazioni. Stava vedendo quello che sarebbe stato lui fra quaranta o cinquant’anni. Ritornò nel salone e si diresse verso il Pronto Soccorso. La calma calava su di lui come una sciarpa di seta. “Posso far fronte alla situazione. Sono solo cadaveri. Nemmeno tanto difficile da sopportare per un medico.”

Mentre s’avvicinava alle porte a battente della corsia, il dottor Graede lo raggiunse alle spalle. Martin svoltò di colpo, ma Graede lo afferrò per una spalla.

— Dottor Wagner, come mai oggi ha saltato il giro? — Graede era uno di quei pomposi baroni come la gente pensa diventino la maggior parte dei dottori di mezza età. Stava anche diventando sempre più un alcolizzato. Quello era infatti il motivo per cui i suoi giri del mattino cominciavano dopo le otto. Gli era difficile alzarsi e mettersi al lavoro prima di quell’ora.

— Non mi sentivo bene, dottor Graede. Mi sono appena alzato. — Graede non aveva un aspetto troppo buono da morto. I suoi occhi erano di un giallo intenso, e così pure la pelle incartapecorita. “Malattia epatica senza dubbio. Il suo fegato si è finalmente dissolto a causa di tutte quelle sbronze. Ehi, se potessi tenere sotto controllo le allucinazioni, avrei un fantastico strumento diagnostico nelle mani.”

— Capisco. Bene, se si sente male, penso che questo sia il posto adatto a lei. In futuro, gradirei essere avvisato quando lei pensa di disertare.

— Lo farò certamente, signore. Mi dispiace, non succederà più. — Graede si voltò e se ne andò. La sua nuca era un cratere unico. “Si infilerà una rivoltella in gola e premerà il grilletto? Sarebbe veramente un eccezionale strumento di diagnosi, se riuscissi a controllarlo”.

Al di là delle porte a battente c’era un uomo con il figlio. Il bimbo sembrava avere all’incirca cinque anni.

— Dottore, stiamo aspettando da un sacco di tempo. Andy è caduto e si è fatto male. Non si sente bene e nessuno sembra avere fretta di visitarlo.

— Bene, sarei felice di… — Martin fissò il braccio che il bambino si era rotto. Il bimbo assassinato lo guardava sospettoso. Non si fidava gran che degli adulti, e a buon diritto. La sua faccia era stata brutalmente pestata e diverse bruciature di sigaretta, in linee parallele come rotaie di una ferrovia, gli partivano dal polso per arrivare fino alle spalle. Martin guardò l’espressione di timida consapevolezza sul volto del cadavere che stava in piedi vicino ad Andy.

“Qualcuno sta maltrattando questo bambino. Scommetto che suo padre non lo ama affatto. Un’altra diagnosi da esperto, dottore? Non posso sopportarlo”.

Si girò e fuggì dall’ospedale.

Martin non ricordava gran che della mezz’ora successiva.

Alla fine, esausto, si sedette semplicemente sulla panchina di un parco e osservò la parata dei morti che sfilava davanti a lui. Qualche oscura parte della sua mente gli suggeriva che era necessario che guardasse, che in qualche modo era meglio per lui. Tuttavia, non si sentiva per niente bene.

Passò molta gente. Dopo un po’, notò che la gente si presentava in uno stato di più avanzato decadimento. Carne putrefatta cadeva dai loro corpi mentre attraversavano la strada a ogni semaforo. Il liquame fuoriusciva dalle loro membra ogni volta che sorridevano o mentre mangiavano i loro panini seduti di fronte alla fontana che stava qualche passo avanti della sua panchina.

Il puzzo aumentava. S’alzò a fatica dalla panchina trascinandosi attraverso la piazza fino a raggiungere una fila di fitti cespugli piantati lungo il perimetro di un palazzo d’uffici. Scostò a viva forza i rami per farsi largo, poi si girò e si sedette dando le spalle al muro.

Un’intera città stava morendo e imputridiva attorno a lui. Si raggomitolò, premendosi il volto contro l’ascella tanto da respirare solo attraverso il tessuto della giacca. Ma non riusciva a tenere lontano il puzzo. Con gli occhi tenuti fortemente chiusi, visualizzò i gas della putrefazione che esalavano e fermentavano nel caldo del pomeriggio, per miglia e miglia attorno a lui. Magari persino in tutto il mondo.

Erano tutti morti, tutti morti. Completamente morti. E ognuno di loro, prima o poi, in un modo orrendo o tranquillo, era definitivamente morto.

Così come sarebbe morto lui. E Teresa. E tutti quelli che aveva conosciuto e amato.

E sarebbe morto anche Marco, ancor prima di altri.

Si raggomitolò ancor più strettamente in posizione fetale. Lui non aveva potuto amare Marco perché era un malato terminale. Non bisognava preoccuparsi di quelli che sarebbero morti comunque.

Al Pronto Soccorso venivano chiamati “fondi di caffè”. Non si perdevano né energie né tempo prezioso per quelli che erano senza speranza. Venivano deliberatamente depennati e ci si dava da fare al meglio solo per coloro che avevano una possibilità di farcela.

E lui aveva depennato Marco dalla sua vita.

Perciò l’aveva lasciato perdere, quasi senza prenderlo in considerazione, a morire nel suo lettino vicino al camino.

L’odore della morte divenne talmente forte che pensò che ne sarebbe rimasto sicuramente avvelenato. Puoi, rimanendo circondato da tutta questa morte, evitarti di morire? Si era guardato allo specchio, ed era molto vecchio e decrepito, ma forse si trattava di una menzogna ben organizzata. Magari poteva morire adesso, diventando anche lui cittadino della città dei morti, insieme a tutti gli altri.