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18

La macchina guidata da un autista risalì la curva del viale per fermarsi davanti alla bella palazzina riparata dalla vista dei passanti da un folto gruppo d’alberi e di fiori. Quando si fu fermata davanti al porticato, l’autista scese e andò ad aprire la portiera posteriore. Il vecchio seduto all’interno si districò e scese aiutandosi col bastone. Respinse con gesto di stizza la mano dell’autista pronto ad aiutarlo.

— Riesco ancora a farcela da solo — disse ansimando, quando fu finalmente riuscito a scendere e si trovò, un po’ barcollante e malsicuro, in piedi sul viale. — Aspettami qui — aggiunse. — Cercherò di far presto, ma tu, comunque, non ti muovere.

— Certo, senatore — disse l’autista. — Ma quei gradini… mi sembrano piuttosto ripidi.

— Ti ho detto di restare qui — disse il senatore Andrew Oakes. — Vatti a sedere al tuo posto. Quando verrà il giorno in cui non sarò più capace di salire le scale, me ne starò a casa mia e lascerò che i giovani prendano il mio posto. Ma adesso è ancora presto — continuò, con un leggero affanno. — Forse fra un paio d’anni. Chissà. Dipende da come mi sentirò.

Si avviò con passo malfermo verso la gradinata, appoggiandosi pesantemente al bastone. Salì il primo gradino, poi si fermò prima di affrontare gli altri. Man mano che superava un gradino, si fermava a guardarsi intorno, come se volesse scoprire se c’era qualcuno che osava guardarlo. Le sue precauzioni erano inutili, in quanto non c’era nessuno, oltre al suo autista, che si era rimesso al posto di guida ed evitava ostentatamente di guardare dalla sua parte.

La porta si aprì mentre attraversava il porticato.

— Sono felice di vedervi, senatore — disse Grant Wellington — ma non c’era bisogno che vi disturbaste. Potevo venire io da voi.

Il senatore si piantò davanti al suo ospite. — È una bella giornata per fare un giretto in macchina — disse — e voi mi avevate detto di essere solo.

Wellington confermò. — Tutta la famiglia è nel New England e la servitù è in libera uscita. Saremo soli.

— Bene — dichiarò il senatore. — A casa mia non si può mai esserne sicuri. C’è un continuo andirivieni di gente. Il telefono non smette mai di suonare. Qui è molto meglio.

— Avete ragione — disse Wellington, facendosi da parte per lasciarlo passare.

Il vecchio entrò nello studio, attraversò la stanza coperta da un folto tappeto e andò a sprofondarsi in un’enorme poltrona di fianco al camino. Depose con cura il bastone per terra accanto alla poltrona, poi diede un’occhiata alle pareti coperti di librerie, alla scrivania direttoriale, ai quadri appesi ai muri.

— Bel posticino, Grant — commentò. — Qualche volta mi dà da pensare. Troppo lusso.

— Sarebbe come dire che così mi manca un incentivo alla lotta? Che avrei paura a sporcarmi le mani?

— Pressappoco così, Grant. Però penso di aver torto. Al momento buono avete saputo lottare. Nel mondo degli affari. Ho sempre sospettato di un uomo che possiede un Renoir — disse, indicando uno dei quadri.

— Qualcosa da bere, senatore?

— Sì, è l’ora giusta per un goccio di bourbon. Gran liquore, il bourbon. Americano. Ha carattere. Ricordo che voi bevete scotch.

— Berrò anch’io bourbon, per tenervi compagnia.

— Avete sentito cosa sta succedendo?

— Ho visto qualcosa alla TV.

— Quello là può prendere un bell’inciampicone, stavolta — disse il senatore. — E sbattere il naso per terra.

— Alludete a Henderson?

— So io a chi alludo. In una situazione simile è facile commettere passi falsi.

Wellington portò la bibita al senatore e tornò al bar a prepararsi la sua. Il senatore si accomodò meglio nella poltrona, col bicchiere in mano. Trangugiò un sorso s fece un sorriso di approvazione. — Per essere uno che preferisce lo scotch — disse — avete scelto una buona marca.

— Ho imparato da voi — disse Wellington, mettendosi a sedere su un divano.

— Credo che il Presidente abbia un bel mucchio di gatte da pelare — disse il senatore. — Forse anche troppe. Deve prendere delle decisioni gravissime.

— Non lo invidio — disse Wellington.

— È la cosa più terribile che gli potesse capitare, con le elezioni l’anno venturo — continuò il senatore. — Non potrà fare a meno di pensarci, e questo certo non gli gioverà. Il brutto è che deve parlare e agire. Nessun altro ci è costretto, ma lui sì.

— Se state cercando di dire che io non devo dire né fare niente, siete molto chiaro — disse Wellington. — Ma non preoccupatevi, e non sforzatevi di essere troppo sottile, senatore, non è il vostro forte.

— Be’, non saprei — dichiarò il vecchio. — Non potevo mica venir qui e dirvi senza preamboli di tenere la bocca chiusa.

— Se quella gente viene davvero dal futuro…

— Oh, quanto a questo non ho dubbi. Da dove potrebbero venire, se no?

— Be’, allora bisogna trattarli con le buone — disse Wellington. — Sono i nostri posteri. Si comportano come dei bambini che corrono a casa a farsi consolare perché si sono fatti male.

— Non saprei — ripeté il senatore. — Non è di questo, comunque, che volevo parlare, ma di Sam, alla Casa Bianca. È lui che deve fare qualcosa e non potrà mancare di commettere degli errori. Noi dobbiamo tenerlo attentamente d’occhio e valutare i suoi sbagli, cercando di trarne il maggior utile possibile. Può darsi che si debba fare anche noi qualcosa, nel frattempo, non voglio essere irragionevole, ma l’importante soprattutto è non compromettersi. Noi due sappiamo che l’estate prossima ci saranno molti candidati che vorranno concorrere contro il vecchio Sam, e voglio che il prescelto siate voi. Anche gli altri penseranno di poter sfruttare questa occasione, e di sicuro non vedono l’ora di farsi avanti a dire la loro. Ma sono arcisicuro, Grant, che in seguito la gente non ricorderà chi ha parlato per primo, ma chi ha detto la cosa giusta.

— Vi ringrazio per il vostro interessamento — disse Wellington — ma vi siete disturbato a venire per niente. Ero già deciso a non prendere posizione. Tanto più che non saprei quale prendere.

Il senatore sollevò il bicchiere vuoto. — Se non vi spiace, ne gradirei un altro goccio.

Dopo che Wellington gli ebbe versato un altro po’ di bourbon, il vecchio continuò: — Prima di prendere posizione, bisogna pensarci a lungo e valutare tutti i pro e i contro, anche, e soprattutto, quando sembrano ovvi. Quel che dicevate circa il fatto che quei profughi sono nostri discendenti è vero e giusto. Appartenendo a una famiglia la cui storia è lunga e brillante, è ovvio che questo sia il primo pensiero che vi è venuto in mente. Ma non dovete dimenticare che un sacco di gente non ha un albero genealogico e non è fiero della propria famiglia, e questa gente, che forma la maggior parte della nostra popolazione, se ne infischia dei posteri. Anzi, sapendo che i profughi sono i nostri posteri, non è per niente ben disposta nei loro confronti. Non dimenticate che al giorno d’oggi un sacco di gente è piena di grattacapi per colpa dei propri diretti discendenti.

“Da quei tunnel sono già arrivati milioni di persone e ne stanno arrivando ancora, e mentre noi alziamo le braccia al cielo sbigottiti, chiedendoci cosa dobbiamo fare per loro, la vera reazione si verificherà quando la presenza di tutta quella gente comincerà a influire sull’economia.

“È probabile che fra poco comincino a scarseggiare i viveri, e i prezzi saliranno; poi ci sarà il problema degli alloggi e del lavoro, e non ci saranno sufficienti materie prime, e se per adesso tutto si limita a qualche bel discorso teorico, fra poco non ci sarà un solo abitante del nostro Paese che non risentirà personalmente gli effetti. E allora sarà il momento di decidere, allora sì che dovrete prendere posizione dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti della situazione.”