— Buonanotte, Jake, e scusatemi per avervi svegliato.
— Non mi avete svegliato. Io stanotte non dormirò. Mi ha fatto piacere sentire la vostra voce, Steve.
Dopo aver riappeso, Wilson rimase seduto a pensare. Forse, se fosse stato meno brusco e più accomodante, sarebbe riuscito a ottenere qualcosa, sebbene ne dubitasse. Non c’erano argomenti, per quanto validi, che potessero persuadere un uomo come il reverendo Billings. Forse, se lo avesse chiamato subito dopo aver parlato col Presidente, sarebbe riuscito almeno a indurlo a moderarsi un poco, ma dubitava anche di questo. Era una causa perduta in partenza, e lo sapeva.
Guardò l’ora. Erano quasi le due. Prese il telefono e chiamò Judy.
— Ti ho svegliata?
— No — rispose lei con voce piena di sonno. — Ti aspettavo. Sei terribilmente in ritardo, Steve. Cos’è successo?
— Sono dovuto andare a Fort Myer a prendere un gruppo di scienziati profughi che dovevano conferire coi loro colleghi del nostro tempo. Non verrò a casa, Judy.
— Perché?
— È meglio che rimanga qui. Non si sa mai cosa potrebbe succedere da un momento all’altro.
— Ora di mattina non riuscirai a reggerti.
— Farò un sonnellino sul divano.
— Posso venire lì io.
— No, non occorre. Avvertirò qualcuno che mi svegli, se ce ne sarà bisogno. Va’ a letto, e vieni pure in ritardo, se vuoi. Posso cavarmela da solo.
— Steve…
— Sì?
— Le cose non si mettono troppo bene, eh?
— È ancora troppo presto per dirlo.
— Ho visto il Presidente alla TV. Sarà un pasticcio grosso. Non ci eravamo mai trovati in una situazione di questo genere.
— Quanto a questo, è verissimo.
— Ho paura, Steve.
— Anch’io — confessò Wilson. — Domattina sarà diverso. Ci sentiremo diversi.
— Ho una sensazione terribile, Steve, come se mi mancasse la terra sotto i piedi. Ho pensato a mia madre e a mia sorella, nell’Ohio. È un pezzo che non vedo la mamma.
— Telefonale. Ti sentirai meglio dopo averle parlato.
— Ho tentato, ma le linee sono sovraccariche.
— Io ho fatto poco fa un’intercomunale.
— Eh, ma tu chiami dalla Casa Bianca. Tengono apposta delle linee libere, per voi.
— Prova a chiamarla domani.
— Steve, sei sicuro di non poter venire? Ho bisogno di te.
— Mi spiace, Judy. Mi spiace proprio, ma sento di dover stare qui. Non so perché, ma non mi va di muovermi.
— Allora ci vedremo in mattinata.
— Cerca di dormire un po’!
— Anche tu. Ne hai bisogno. Domani sarà una giornata campale.
Si salutarono, e Wilson depose la cornetta. Si domandò perché avesse insistito per non muoversi di lì. Per il momento la sua presenza non era necessaria, ma non si poteva mai sapere. Doveva cercare di dormire un po’, ma era troppo nervoso. Avrebbe dormito più tardi, quando la situazione avesse preso una piega migliore. Ma adesso aveva i nervi troppo tesi e il cervello in ebollizione. Nonostante regnassero la quiete e il silenzio, c’era nell’aria una tensione quasi tangibile.
29
Un rumore svegliò di botto Elmer Ellis, che balzò a sedere sul letto, intontito e incapace sul momento di orientarsi. La sveglia ticchettava sul comodino, e accanto a lui sua moglie Mary stava sollevandosi sul gomito. — Cosa c’è, Elmer? — gli chiese con voce assonnata.
— Qualcosa nel pollaio — disse lui, che si era reso conto da dove era venuto il rumore che l’aveva svegliato.
Il rumore — lo schiamazzo dei polli spaventati — tornò a ripetersi. Elmer Ellis gettò via le coperte e si alzò. S’infilò i calzoni e le scarpe, mentre fuori lo schiamazzo continuava.
— Dov’è Tige? — domandò Mary.
— Quel maledetto cane sarà scappato a dar la caccia a un opossum — borbottò suo marito, avviandosi verso la cucina. Passando, staccò il fucile dal gancio, prese una manciata di cartucce dalla sacca vicina e se le infilò in tasca.
— Prendi anche la lampada — disse sua moglie che l’aveva seguito porgendogli una torcia elettrica.
Lui caricò la doppietta e prese la lampada.
Fuori era buio pesto, e lui accese la lampada per vedere i gradini del portico. Lo schiamazzo continuava nel pollaio, e Tige non si vedeva. Strano. In un momento di rabbia aveva detto che era scappato per dare la caccia a un opossum, ma non ne era convinto. Tige non se ne andava mai a caccia da solo. Era troppo vecchio e impacciato nei movimenti per lasciare la sua amata cuccia sotto il portico.
— Tige — chiamò Elmer.
Il cane rispose con un guaito da sotto l’impiantito del portico.
— Cosa diavolo ti ha preso? Cosa sta succedendo nel pollaio?
D’improvviso ebbe paura, una paura che non aveva mai provato prima. Più ancora di quando era caduto in un’imboscata dei Vietcong. Era una paura diversa, come se una mano gelida lo avesse afferrato e non volesse più lasciarlo andare.
Il cane tornò a guaire.
— Su, vieni, bello. Vieni che andiamo a vedere.
Tige non si mosse.
— E va bene, allora. Resta lì — disse Elmer avviandosi verso il pollaio.
Le galline continuavano a schiamazzare sempre più forte, sbattendo le ali. Come mai? Per quanto il recinto fosse malandato, e lui si fosse ripromesso molte volte di aggiustarlo, senza però farlo mai, era impossibile che ci fosse entrata una volpe. Forse una faina o una martora.
Arrivato alla porta si fermò, riluttante. Ma non poteva tornare indietro senza dare un’occhiata, non se lo sarebbe mai perdonato. Ma perché aveva tanta paura? Colpa di Tige che si stava comportando in modo così strano. L’aveva contagiato con la sua paura.
— Maledetto cane — borbottò.
Allungò la mano per sollevare il paletto e spalancò la porta mandandola a sbattere contro il muro. Tenendo il fucile con la destra, diresse con la sinistra il fascio di luce della lampada. La prima cosa che vide nel cerchio di luce fu una quantità di penne che svolazzavano per aria. Poi i polli che correvano strillando e sbatacchiando le ali terrorizzati, e fra i polli…
Elmer Ellis lasciò cadere la lampada e si mise a urlare, e continuando a urlare sollevò il fucile e si mise a sparare all’impazzata nel buio, prima un colpo, poi l’altro, ma i colpi furono così vicini che parvero quasi un’esplosione.
Poi gli furono addosso, balzando attraverso la porta aperta, e gli parvero centinaia, appena visibili al chiarore della lampada caduta sul pavimento… orribili mostricciattoli mai visti altro che nel peggiore degli incubi. Rovesciò il fucile, senza quasi rendersi conto di quel che faceva, afferrandolo per le canne, e lo adoperò come una clava facendolo roteare alla cieca.
Sentì dei denti aguzzi affondare nella caviglia. Un corpo massiccio lo urtò con violenza nello stomaco. Degli unghioni gli lacerarono una gamba, dall’anca al ginocchio, ed Elmer temette che per lui fosse finita.
Cadde in ginocchio mentre uno dei mostri lo teneva stretto per un braccio e, mentre cercava di liberarsi dalla stretta, un altro gli lacerava la schiena con gli artigli. Allora si rigirò su un fianco cercando di proteggersi la testa col braccio libero, e piegando le ginocchia per coprire il ventre.
E, d’un tratto, si trovò libero. Niente più morsi o graffi. Alzò la testa e li vide — ombre indistinte — che si allontanavano nel buio. I raggi della lampada caduta ne illuminarono uno per un breve istante, sufficiente, però, a mostrargli che genere di creature avevano portato lo scompiglio nel suo pollaio, e a quella vista non poté trattenere un gemito di terrore.
Poi anche quello scomparve, insieme a tutti gli altri. Elmer Ellis rimase solo nel cortile e cercò di rialzarsi, ma senza riuscirvi. Strisciando e trascinandosi appresso una gamba, conficcando le unghie nel terreno per poter andare avanti, perdendo sangue dalle ferite, riuscì ad attraversare il cortile.