— Prego? — chiese Ponter.
— Niente — rispose lui. — Può andare.
Il tragitto fino a New York fu breve, meno di un decimo di giorno. Già dal volo del giorno precedente Hélène lo aveva preavvisato del possibile malessere in fase di atterraggio, a causa del rapido cambiamento di pressione; lui non avvertì nulla. Forse era un problema da gliksin, a causa delle loro ridotte cavità nasali.
Come annunciò lo speaker, l’aereo avrebbe deviato a sud, sorvolando l’isola chiamata Manhattan, per problemi di traffico aereo. “Cieli troppo affollati!” pensò Ponter. “Che cosa incredibile.” Ed eccitante. La sera prima, dopo quel pieno di notizie sulla guerra, aveva letto la voce NEW YORK. Aveva scoperto che laggiù esistevano degli enormi manufatti: sarebbe stato stupendo vederli dall’alto. Gli bastò poco per riconoscere la gigantessa verde dall’aria austera, che teneva sollevata una torcia. Invece, per quanto si sforzasse, non riuscì a individuare le due torri che, in base al testo, svettavano al di sopra di tutti gli altri edifici, entrambe con i loro vertiginosi 110 piani.
Quando furono a terra, chiese a Hélène qualche delucidazione sui grattacieli, trovava la parola molto poetica, mancanti.
Hélène parve a disagio. — Oh… intende il World Trade Center. Erano due delle costruzioni più alte del pianeta, ma… — Con grande sorpresa di Ponter, la voce della donna si era incrinata. — M… mi spiace dover essere io a dirglielo, ma… — Altra esitazione. — Ma sono state distrutte dai terroristi.
Il suo Companion emise un bip. Tukana, che evidentemente aveva fatto ricerche per conto proprio, accostò la bocca all’orecchio del collega e gli suggerì: — Fuorilegge gliksin che usano la violenza nel tentativo di ottenere cambiamenti politici o sociali.
Ponter scosse la testa, sempre più sbalordito dal mondo in cui era finito. — Come hanno fatto?
Di nuovo, a Hélène ci volle un po’ per mettere insieme la risposta. — Due grossi aeroplani, con i serbatoi pieni di carburante, sono stati dirottati e costretti a schiantarsi contro le torri.
Ponter non seppe che cosa replicare. Ma fu lieto di averlo scoperto solo dopo aver messo piede a terra.
16
Quando Mary aveva 18 anni, il suo fidanzato Donny per l’estate era andato a Los Angeles con la famiglia. Tutto questo accadeva prima dell’avvento delle telefonate a tariffa ridotta, per non parlare dell’e-mail, ma i due si erano tenuti in contatto via posta. All’inizio Donny mandava lettere lunghissime, dove si profondeva in notizie e dichiarazioni d’amore.
Poi le dolci giornate di giugno avevano lasciato il posto a quelle torride di luglio e a quelle afose di agosto; e man mano le lettere si erano fatte sempre meno frequenti, e più brevi. Mary conservava ancora il vivido ricordo del giorno in cui ne era arrivata una firmata semplicemente “Donny”. Senza la formula di rito: “Ti amo”.
Dicono che la lontananza acuisca la passione. Sarà così, in qualche caso… Per esempio, nel caso di Mary con Ponter Boddit. Non si vedevano da settimane, e Mary provava per lui lo stesso affetto, se non di più, di quando Ponter era partito.
Tra loro due però c’era una differenza. Dopo la scomparsa di Ponter, Mary era tornata a essere una persona sola. Sola, non single, in quanto lei e Colm erano solo legalmente separati. Se avessero divorziato, essendo cattolici, sarebbero stati esclusi dalla Comunione; a meno che non chiedessero l’annullamento del matrimonio, ma questa era sembrata a entrambi una soluzione ipocrita.
Viceversa, Ponter soffriva di solitudine solo quando si trovava nel mondo gliksin. È vero, era vedovo (sebbene lui non utilizzasse questo termine), ma al ritorno nel suo mondo si era ricongiunto con una famiglia: il compagno Adikor Huld (Mary si era segnata tutti i loro nomi), e le due figlie, la diciottenne Jasmel Ket e la piccola Megameg, 8 anni.
Mary era al 18° piano dell’edificio del Segretariato delle Nazioni Unite, in attesa che Ponter uscisse da una riunione. Restò seduta per tutto il tempo senza fare nulla, troppo nervosa per leggere, con lo stomaco stretto e la testa invasa dall’incalzare dei pensieri. Ponter l’avrebbe riconosciuta? Qui a New York aveva sicuramente visto eserciti di bionde sulla quarantina: le donne gliksin gli sarebbero sembrate tutte uguali? Per di più Mary aveva cambiato taglio di capelli e, dannazione, aveva messo su un chilo.
In fin dei conti, era stata lei a rifiutare lui, la volta scorsa. Forse Mary era l’ultima persona che Ponter desiderasse incontrare al suo ritorno su questa Terra.
Ma no, ma no. Ponter aveva compreso che lei era ancora sotto shock per la violenza subita, e che non era colpa di lui se Mary non se l’era sentita di accettare le sue avance. Ma certo, lui aveva capito tutto.
Tuttavia…
Mary si senti sobbalzare il cuore in petto. La porta si stava aprendo, il brusio dall’interno si era trasformato in parole distinte. Mary si alzò in piedi, stringendosi e torcendosi le dita.
— … le farò senz’altro avere quei dati — disse un diplomatico asiatico, rivolgendosi a una donna neanderthaliana dai capelli argentei, che doveva essere l’ambasciatrice Tukana Prat.
Altri due sapiens si fecero largo per guadagnare l’uscita. E dietro di loro…
Dietro di loro c’era Ponter Boddit. I suoi capelli castani chiari con la scriminatura esattamente in centro, i suoi occhi dorati erano inconfondibili e affascinanti anche a distanza. Mary inarcò le sopracciglia, ma lui non aveva ancora colto l’immagine di lei, o i suoi feromoni. Era intento a discutere con uno dei diplomatici in rapporto a certe questioni geologiche, quando…
Quando i suoi occhi caddero su Mary, lei sorrise nervosamente. Lui si spostò di lato con grazia, passò oltre gli uomini che lo precedevano ed esibì quel sorriso di 30 centimetri che Mary conosceva bene; le si avvicinò, la strinse tra le braccia, quasi stritolandola contro il proprio torace da lottatore.
— Mèr! — esclamò. Poi, tradotto da Hak: — È magnifico rivederti.
— Bentornato — disse lei, appoggiando la guancia contro la sua. — Bentornato!
— Che ci fai a New York?
Lei avrebbe potuto rispondere che era venuta nella speranza di poter prelevare un campione di DNA di Tukana. Era la verità in parte, e avrebbe fornito una scusa elegante.
Invece disse: — Sono venuta per te.
Ponter di nuovo la stritolò amorevolmente, quindi lasciò la presa e fece un passo indietro, posandole le mani sulle spalle e fissandola dritta negli occhi. — Sono così felice.
Con un certo imbarazzo, Mary si accorse che i presenti li stavano osservando. Anzi, dopo qualche secondo Tukana si schiarì la voce, proprio come fanno i gliksin.
Ponter voltò la testa e notò l’ambasciatrice. — Ops — disse. — Scusatemi. Ti presento Mèr Vaughan, la genetista di cui ti ho parlato.
Mary fece un passo avanti e porse la mano. — Buongiorno, ambasciatrice.
Tukana le strinse la mano con una forza mozzafiato. Mary pensò che, con un po’ di astuzia, avrebbe potuto raccogliere cellule di Tukana semplicemente con quel gesto di saluto. — Lieta di conoscerla — disse la neanderthal, presentandosi: — Io sono Tukana Prat.
— Lo immaginavo — rispose Mary con un sorriso. — Ho visto la sua foto sui giornali.
— Ho come la sensazione — disse Tukana con un sorrisetto — che forse lei e l’inviato Boddit desideriate trascorrere un po’ di tempo da soli. — Senza attendere risposta, si voltò verso uno dei diplomatici: — Che ne dice, potremmo andare subito nel suo ufficio per esaminare quei dati sulle densità di popolazione?
L’uomo annuì. Il gruppo si allontanò, lasciando liberi Mary e Ponter.