— Qui negli Stati Uniti? Avrebbero potuto comminargli la pena capitale. — Altro bip. — Condannarlo a morte. Ucciderlo, come punizione per il suo crimine, e come deterrente per altre persone con le stesse intenzioni.
Ponter scosse la testa, strusciando rumorosamente i capelli castano chiari contro il cuscino. — Io non sarei stato d’accordo. Nessuno merita una morte prematura; neppure chi cerca di procurarla agli altri.
— Oh, via, Ponter! — esclamò Mary, sorprendendosi lei stessa dell’acredine del tono. — Come fai a essere così… così Gesù Cristo? Quel bastardo ha cercato di ammazzarti. Che t’importa della fine che avrebbe fatto!
Per. un po’, Ponter non rispose. Non disse (anche se Mary sapeva che avrebbe potuto farlo benissimo) che già una volta qualcuno aveva tentato di ucciderlo; qualcuno che gli aveva sferrato un pugno terrificante alla mascella. Ponter si limitò a commentare: — È pura e semplice teoria, in ogni caso. Rufus Cole non è più tra noi.
Ma Mary non era intenzionata a mollare. — Quando sei stato colpito, tutti quegli… tutti quei mesi fa… il responsabile non aveva agito per premeditazione, e aveva immediatamente provato un senso di colpa. Me lo hai raccontato tu stesso. Ma è evidente che Rufus Cole aveva pianificato l’azione, e mi pare che questo faccia una bella differenza.
Ponter cambiò posizione sul materasso. — Io sono sopravvissuto. Ma, a parte questo, nessuna decisione presa dopo il fatto avrebbe potuto cancellare il segno della ferita. Me lo porterò addosso fino al giorno della morte.
Mary scosse la testa, ma si sforzò di assumere un tono simpatico: — A volte sei troppo buono per essere credibile, Ponter.
— Non so che dire.
Mary sorrise. — Il che conferma la mia tesi.
— Però ho una domanda.
— Quale?
— Adesso che succederà?
— Non lo so — rispose Mary. — Un medico mi ha detto che da Sudbury è stata portata in aereo una valigia diplomatica per te. Penso che sia quella là sul tavolo.
Ponter si voltò in quella direzione. — Ah. Me la prenderesti, per favore?
Mary eseguì. Lui aprì la valigia e ne estrasse una specie di grossa busta neanderthaliana, di forma quadrata. La aprì come fosse un fiore che sbocciava; all’interno trovò una sferetta color rubino.
— Che cos’è? — chiese Mary.
— Una perla di memoria — rispose Ponter. Toccò il Companion che, con grande sorpresa di Mary, si aprì a scatto rivelando un comparto interno con un gruppetto di pulsanti e un foro rotondo del diametro di una matita. — Vedi? Si inserisce qui — e lo fece. — Ora, se per favore…
— Sì, vado — disse Mary. — Mi rendo conto che sono informazioni riservate.
— No, no, resta qui. Dicevo: “Per favore, abbi un minuto di pazienza”. Hak mi farà ascoltare il messaggio attraverso l’impianto cocleare.
Mary acconsentì. Ponter reclinò lievemente il capo, come faceva quando ascoltava Hak in privato. Sulla sua faccia si dipinse una smorfia sempre più estesa. Alcuni istanti dopo, riaprì Hak e rimosse la perla.
— Che ha detto? — chiese Mary.
— Il Gran Consiglio mi intima di tornare immediatamente di là.
Mary ebbe un tuffo al cuore. — Oh!
— Non lo farò — aggiunse Ponter, in tono calmo.
— Cosa?! E perché?
— Se tornerò indietro, loro chiuderanno il varco.
— Lo hanno detto?
— Non direttamente, ma conosco quelli del Consiglio. Il mio popolo è ben consapevole che siamo esseri mortali, Mèr… senza nessuna vita dopo la morte. Per cui evitiamo rischi inutili. E la prosecuzione dei contatti con la vostra Terra, dopo ciò che è successo, è una missione che il Consiglio giudica inutilmente rischiosa. Già in parecchi erano contrari alla riapertura del varco, e gli eventi recenti hanno complicato le cose.
— Puoi farlo? Decidere di rimanere qui?
— Lo farò e basta. Ci saranno delle conseguenze; sono pronto a sopportarle.
— Caspita — sussurrò Mary.
— Finché io rimarrò qui, il mio popolo manterrà aperto il varco; il che darà il tempo di organizzarsi a quelli, come me, che ritengono che il contatto sia importante. Se invece venisse interrotto, il passo successivo sarebbe lo smantellamento del computer quantistico, con l’adozione di misure di sicurezza che rendano per sempre impossibile il ripristino.
— In questo caso… che intendi fare, una volta fuori di qui?
Ponter la fissò negli occhi. — Trascorrere più tempo con te.
Il cuore di Mary ebbe un altro sussulto, ma di gioia. — Sarebbe meraviglioso. — Poi, un’illuminazione. — La prossima settimana andrò a Washington a presentare i miei studi sul DNA neanderthaliano alla Società di paleoantropologia. Perché non ci vieni anche tu? Per loro sarebbe l’evento più grandioso… dopo quella volta che Wolpoff e Tattersall si fecero a pezzettini al meeting di Kansas City.
— Sarebbe un raduno di esperti sul tema: forme arcaiche di umanità? — chiese Ponter.
— Esatto. Saranno presenti la maggioranza degli studiosi del settore a livello internazionale. Credimi, sarebbero felici di conoscerti.
Ponter aggrottò le ciglia, facendo temere a Mary di averlo offeso. Poi però disse: — Come arriverei fin là?
— Ti porterò io. Quando sarai dimesso dall’ospedale?
— Mi pare dicessero che ci vorrà ancora un giorno.
— Perfetto, allora — disse Mary.
— Però… non ci saranno problemi?
— Certo che sì! — Mary sorrise. — Ma conosco l’uomo giusto per abbatterli.
20
Era davvero un’ironia della sorte, pensò Tukana, che a desiderare la privacy fosse proprio quell’uomo. Tuttavia, chi poteva biasimarlo se viveva come un recluso? Era famoso su tutto il pianeta, riceveva onori ovunque andasse. Anzi, il mondo stava per celebrare il millesimo mese della sua grande invenzione, per cui gli sarebbe stato richiesto di fare centinaia di apparizioni pubbliche; incrociando le dita, data l’età del soggetto. L’interessato apparteneva infatti alla generazione 138; era uno dei pochi sopravvissuti (meno di 1000) della sua leva; della generazione appena precedente non era rimasto nessuno.
Tukana aveva già incontrato dei 138, ma non di recente. L’ultima volta che era stata vista in compagnia di uno di loro era stato circa 50 mesi prima, e già allora era rimasta stupita dalla loro veneranda età.
Dicono che i capelli grigi siano indice di saggezza. Solo che il grand’uomo era ormai completamente pelato, almeno in testa: quel celebre cranio di lunghezza stupefacente. Per il resto, aveva ancora dei peletti trasparenti lungo le braccia. Vederlo faceva un effetto strano: anzianissimo, raggrinzito, con la pelle picchiettata di macchie grigie e marroni, ma con intensi occhi blu. Occhi artificiali, costituiti da lucide sfere metalliche e iridi sfaccettate; occhi che luccicavano dall’interno. Naturalmente avrebbe potuto farsi inserire protesi oculari più simili agli occhi naturali che aveva avuto, ma se c’era uno che non aveva nulla di cui vergognarsi di un impianto artificiale, era proprio lui. Tukana sapeva anche che altri inserti gli mantenevano in funzione il cuore e i reni, e che ampie sezioni del suo scheletro cascante erano state sostituite con ossa artificiali. Infine, una volta lo aveva sentito mentre diceva a un Esibizionista, ridendo, che era bene che uno della sua età avesse occhi così appariscenti: così la gente non si illudeva che lui non fosse più in grado di notare nulla.
Tukana entrò nell’ampio soggiorno. Il proprietario era così vetusto che gli alberi con cui era costruita la sua abitazione avevano raggiunto un diametro prodigioso, e lui vi aveva scavato locali sempre più estesi, con il correre dei mesi.