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— Cosa? No, no, no.

— Allora come…

— Perché ci sono i loro nomi — rispose Mary, in un tono che cominciava a tradire una certa esasperazione. — I nomi. Noi entriamo in comunicazione con gli altri tramite i nomi.

Ponter aggrottò le sopracciglia. — Io… scusami, non voglio fare la parte del tonto, ma questo non mi sembra esatto. Noi… il mio popolo… entriamo in contatto tra noi tramite gli sguardi. C’è un sacco di gente di cui riconosco i lineamenti, ma di cui non ho mai saputo il nome. Inoltre, be’, comunico con te ma, sebbene sappia il tuo nome, non riesco a pronunciarlo, e neppure a pensarlo, in modo preciso. Arrivo al massimo ad articolare “Mèr”.

— Noi pensiamo che i nomi abbiano… — Mary fece spallucce in modo più evidente, rendendosi conto di quanto suonasse ridicolo —… qualcosa di magico.

— Però, non è che davvero comunichiate con i morti — ripeté Ponter. Non voleva sembrare testardo, e in effetti non lo era.

Mary chiuse gli occhi per raccogliere le energie… o, come pensò Ponter, per ascoltare il parere di qualche persona lontana. Infine disse: — Lo so che il tuo popolo non crede a una vita nell’aldilà.

— La vita dopo la morte — ricordò lui, quasi presentando la parola su un piatto d’argento. — È un ossimoro.

— Non per noi — replicò Mary; poi, sottolineando la frase: — Non per me. — Lanciò un’occhiata intorno. Ponter la interpretò come un’esternazione del desiderio di Mary di trovare il modo migliore per esprimere i propri sentimenti; invece lei puntò lo sguardo in una direzione precisa, poi si mosse. Ponter la seguì.

— Vedi quei fiori? — gli chiese lei.

— Certo.

— Sono stati lasciati qui da qualcuno vivo, per qualcuno morto. Qualcuno il cui nome è scritto lì — indicò la lastra di granito di fronte a sé. Poi si chinò. Erano rose, con lunghi gambi tenuti insieme da un nastrino, da cui spuntava un biglietto. — A Willie — disse Mary, evidentemente leggendo il biglietto — dalla sua affezionata sorella.

— Ah — disse Ponter, incapace di trovare un commento più appropriato.

Camminando a passo più deciso, Mary raggiunse una pagina ormai molto ingiallita posata contro il memoriale. La raccolse e lesse: — Caro Carl… — Fece una pausa, esaminando la lastra che aveva davanti. — Dev’essere lui — disse, allungando un dito e toccando un nome: CARL BOWEN. — Restò a fissare il nome inciso, aggiungendo: — Un messaggio per te, Carl. — Doveva essere un suo saluto spontaneo, perché non stava leggendo. Poi, abbassando lo sguardo sul foglio, disse ad alta voce:

Caro Carl,

lo so che avrei dovuto venire prima. Avrei tanto voluto farlo, davvero, ma non sapevo come avresti preso la notizia. Lo so che per te ero il primo amore, e tu per me, e che nessuna estate è stata meravigliosa come quella del ’66. Ho pensato a te ogni giorno della tua assenza, e quando si è saputo che eri morto, ho pianto, ho pianto tanto, e sto piangendo anche adesso che scrivo queste parole.

Non voglio che tu pensi che io abbia mai smesso di provare dolore per te, perché non è così. Ma ho una vita da vivere. Ho sposato Bucky Samuels, te lo ricordi?, quello di Eastside. Adesso abbiamo due bambini, entrambi più grandi dell’età che avevi tu quando sei morto.

Credo che non mi riconosceresti neppure. I capelli mi stanno diventando grigi, anche se faccio di tutto per nasconderlo, ed è da un pezzo che non ho più le lentiggini. Ma continuo ancora a pensare a te. Amo tanto Bucky, ma amo tanto anche te… e so che un giorno ci incontreremo ancora.

Il tuo eterno amore

Jane

— Incontrarsi di nuovo? — disse Ponter. — Ma se lui non c’è più…

Mary annuì. — Intende dire: si rivedranno quando anche lei morirà.

Ponter appariva pensieroso. Mary fece qualche altro passo, e prese un’altra lettera, stavolta plastificata. — Caro Frankie… — cominciò; quindi scrutò i nomi nelle vicinanze. — Eccolo! — Lo indicò: FRANKLIN T. MULLENS m. Lesse di nuovo ad alta voce:

Caro Frankie,

si dice che una madre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio, ma un figlio non dovrebbe esserle portato via a 19 anni, non ti pare? Sento la tua mancanza ogni giorno, e anche papà. Lo sai com’è fatto: davanti a me cerca di fare il duro, ma lo sento piangere in silenzio ogni notte, quando pensa che io stia dormendo.

Il mestiere di madre è quello di prendersi cura del proprio figlio; io ho cercato di fare del mio meglio. Ma ora a prendersi cura di te è Dio, e so che tu sei felice tra le Sue braccia amorose.

Saremo di nuovo insieme un giorno, mio adorato figlio.

Con affetto,

Mamma

Ponter non sapeva che cosa dire. Quei sentimenti erano così autentici, così sinceri, ma anche così… irrazionali. Non se ne rendeva conto, Mary? E le persone che scrivevano quei messaggi?

Lei continuò a leggere lettere, cartoline, biglietti e rotoli che erano stati lasciati contro la superficie del monumento.

Furono molte le frasi che rimasero impresse nella memoria di Ponter: “Sappiamo che ora sei nelle mani di Dio”, “Sospiro nell’attesa del giorno in cui ci riuniremo tutti”, “Tanto è dimenticato / tanto non detto mai / ma prometto che racconterò tutto / quando saremo insieme, di là”, “Ora dormi, mio amato”, “Non vedo l’ora di riabbracciarti…”, “… in quel giorno meraviglioso in cui il Signore ci radunerà in cielo”, “Addio, e che Dio sia sempre con te, finché non ci ritroveremo”, “Abbi cura di te, fratellino. Tornerò a trovarti appena ripasserò da Washington”, “Riposa in pace, amico mio”.

Mary dovette fermarsi spesso per asciugarsi le lacrime. Anche Ponter provava tristezza, e anche i suoi occhi erano umidi, anche se sospettava che non fosse per gli stessi motivi. — È sempre dura, quando viene a mancare una persona che amiamo — disse lui.

Mary annuì lievemente.

— Ma… — aggiunse Ponter, poi tacque.

— Sì? — lo incoraggiò Mary.

— Questo memoriale — disse Ponter alzando il braccio per indicare entrambe le pareti — che scopo ha?

Mary assunse un’espressione quasi incredula. — Onorare i caduti.

— Non tutti i caduti — notò Ponter, a bassa voce.

— Solo gli americani.

— Be’, sì. È un monumento che ricorda il sacrificio dei soldati americani. È il modo in cui la gente degli Stati Uniti dimostra quanto li ammiri.

— Li ammirasse — disse Ponter. Mary non capì.

— Forse il mio traduttore ha sbagliato — disse Ponter.

— Si può ammirare, al presente, ciò che attualmente esiste. Si ammirava, al passato, ciò che ora non esiste più.

Mary sospirò, evidentemente poco desiderosa di affrontare il dibattito.

— Non hai ancora risposto alla mia domanda — proseguì lui. — Che scopo ha questo memoriale?

— Te l’ho detto: onorare i caduti.

— No, no — precisò Ponter. — Questo può essere un fine occasionale, semmai, ma sicuramente lo scopo di chi lo ha progettato…

— Maya Ying Lin — disse Mary.

— Come?

— Maya Ying Lin è la donna che ha fatto il progetto.

— Oh. Bene, sicuramente il suo scopo, come quello di chiunque realizzi un monumento, è assicurarsi che nessuno dimentichi.

— E quindi? — fece Mary, abbastanza irritata da quella distinzione di lana caprina.

— La ragione per cui non va dimenticato il passato — proseguì lui — è evitare che si ripetano gli stessi errori.

— Certo, ovvio.

— Perciò, chiedo, il memoriale è servito allo scopo? Da allora, è stato evitato lo stesso errore, l’errore che ha mandato alla morte tutti questi giovani?