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— Insegnavo — corresse lui. — Mi sono trasferito a quella di Chicago.

— Ah — fece Mary. — E lei — disse, rivolta alla donna, una bianca sui 35 anni — è Angela Bromley, del Museo di storia naturale di New York.

Angela porse la mano. — È un vero piacere, professor Boddit.

— Chiamami pure Ponter — disse lui. Aveva imparato che, in quella società, nessuno chiamava un altro per nome finché non fosse l’interessato a permetterlo.

— Lui — aggiunse Angela — è mio marito Dieter.

— Salve — dissero in coro Mary e Ponter, poi lei chiese: — Anche tu antropologo?

— No, no, no. Sono nell’alluminio.

Ponter si grattò la testa. — Lo nascondi bene.

Il gruppo restò sconcertato, ma Mary rise. — Imparerete ad apprezzare lo humour di Ponter!

Dieter si alzò. — Permettetemi di offrirvi da bere. Tu, Mary, vino?

— Bianco. Grazie.

— E per Ponter?

Ponter si accigliò, indeciso su cosa rispondere. Mary gli sussurrò: — In tutti i bar hanno Coca-Cola.

— Una Coca! — s’illuminò lui. — Sì, grazie.

Dieter si allontanò. Mary prese qualche stuzzichino da una ciotola di legno al centro del tavolo.

— E allora! — disse Angela a Ponter. — Spero che non ti dispiaccia se ti rivolgo qualche domanda. Tu ci hai sconvolto il mestiere, dopotutto.

— Non l’ho fatto apposta — disse Ponter.

— Oh, naturalmente — rispose Angela. — Ma tutte le cose che scopriamo sul tuo mondo, rovesciano qualche certezza che credevamo di avere.

— Per esempio?

— Si dice che voi non pratichiate l’agricoltura.

— È così.

— Avevamo sempre supposto che l’agricoltura fosse un prerequisito necessario allo sviluppo della civiltà — disse Angela, sorseggiando il cocktail che aveva ordinato.

— Perché? — chiese Ponter.

— Be’, vedi, pensavamo che soltanto grazie all’agricoltura si potesse garantire una quantità adeguata di cibo per tutti. Il che permette la nascita di mestieri specializzati: insegnante, ingegnere, impiegato statale, eccetera.

Ponter scosse lentamente la testa, incredulo. — Nel mio mondo ci sono persone che decidono di vivere alla vecchia maniera. Quanto tempo immagini che ci voglia loro per procurare il necessario per sé e le loro famiglie? Angela fece spallucce. — Un sacco, presumo.

— No, affatto — disse Ponter. — Almeno, finché si hanno pochi figli. Quest’attività occupa circa il 9 per cento del tempo. — Fece una pausa, o per calcolare lui stesso o per attendere che Hak convertisse la percentuale. — Vale a dire, 60 delle vostre ore al mese.

— Sessanta ore al mese! — esclamò Angela. — Buon Dio, fanno solo 15 ore a settimana.

— Sì, esatto. E tutto il resto del tempo può essere dedicato ad altre attività. Fin dall’inizio abbiamo avuto una gran quantità di tempo che ci avanzava.

— Ponter ha ragione — intervenne Henry Cervo Che Corre. — Quindici ore alla settimana è, anche su questa Terra, l’impegno medio per i popoli che vivono di caccia.

— Davvero? — disse Angela, risistemandosi gli occhiali.

Henry annuì. — L’agricoltura è stata la prima attività umana in cui il risultato fosse direttamente proporzionale allo sforzo. Se si lavora per 80 ore alla settimana per arare i campi, si ottiene un raccolto doppio rispetto a un lavoro di 40 ore. Con la caccia e la raccolta di frutti spontanei, non va così: se si caccia a tempo pieno, si abbatteranno tutte le prede presenti sul territorio, per cui è controproducente dedicare a essa tutta la giornata.

Tornò Dieter, posò i bicchieri davanti a Mary e Ponter, e sedette.

— Ma, senza agricoltura — chiese Angela — come fate ad avere insediamenti permanenti?

Henry corrugò la fronte. — Tutto il contrario: a dare vita agli insediamenti permanenti non è l’agricoltura, è la caccia.

— Ma… no, no, ricordo che a scuola…

— Quanti nativi americani avevi tra gli insegnanti? — chiese Cervo Che Corre in tono gelido.

— Neppure uno. Pero…

Henry osservò Ponter, poi Mary. — I bianchi fanno una fatica enorme a comprendere questo fatto, ma è la pura verità. I cacciatori scelgono una base e vi si stabiliscono: per sopravvivere occorre conoscere a fondo il territorio, dove crescano determinate piante, dove si abbeverino gli animali, dove gli uccelli depongano le uova. Ci vuole una vita a mappare la zona. Se ci si trasferisce di frequente, allora si spreca un sacco di fatica.

Mary sollevò un sopracciglio. — Ma sono i contadini quelli che devono mettere radici.

Henry non notò la battuta. — In realtà, i contadini migrano ogni tot generazioni. I cacciatori-raccoglitori non accrescono eccessivamente i nuclei familiari, dato che ogni bocca in più significa tanto lavoro in più per un adulto. Invece i contadini amano le famiglie numerose, perché ogni figlio significa braccia in più da mandare nei campi. Più si hanno figli, meno si deve faticare di persona.

Ponter ascoltava con grande interesse. Ogni tanto il suo traduttore emetteva un bip, ma nel complesso il neanderthal seguiva bene il discorso.

— Il ragionamento fila — disse Angela, seppure in tono poco convinto.

— Certo — riprese Henry. — Però, quando i figli dei contadini sono cresciuti, tocca loro spostarsi per creare le proprie fattorie. Chiedi a un contadino dove vivesse il nonno di suo nonno, e lui ti citerà qualche località lontana. Chiedilo a un cacciatore, e lui risponderà: “Esattamente qui”.

Mary pensò al proprio albero genealogico. I suoi genitori stavano a Calgary, i suoi nonni vivevano in Inghilterra, Irlanda e Galles, e i suoi bisnonni… santo cielo, già risalendo all’indietro oltre due generazioni, non riusciva più a rintracciare la propria famiglia.

— Un territorio di caccia e raccolta non lo si abbandona a cuor leggero — diceva intanto Henry. — Ecco perché si dà tanta importanza all’esperienza degli anziani.

A Mary bruciava ancora l’ironia di Ponter sul fatto che lei si tingesse i capelli. — Ti prego, approfondisci questo aspetto.

Dopo aver bevuto un po’ della sua birra, Henry rispose: — I contadini danno importanza ai giovani, perché l’agricoltura è tutta questione di forza fisica. Ma la caccia e la raccolta di frutti spontanei si basano sulla conoscenza. Più è lungo il periodo di cui si conserva memoria, più emergono degli schemi regolari, e meglio si domina il territorio.

— Anche noi diamo importanza agli anziani — disse Ponter. — Nulla può sostituire l’esperienza.

Mary annuì. — È una cosa che già sapevamo a proposito dei neanderthal, grazie ai fossili. Solo che non capivamo perché.

— Non lo sapevo: io sono specializzata in Australopithecus — disse Angela. — Quali fossili?

— L’esemplare noto come l’Uomo di La-Chapelleaux-Saints — rispose Mary — soffriva di paresi e artrite, aveva una frattura alla mascella e gli mancavano quasi tutti i denti. Era evidente che gli altri si erano presi cura di lui da anni, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta a sopravvivere. Anzi, è probabile che qualcuno addirittura gli pre-masticasse il cibo. L’Uomo di La-Chapelle morì anziano: a 40 anni, che era una bella età per un popolo in cui si campava intorno ai vent’anni. Doveva avere accumulato un enorme bagaglio di conoscenze sul territorio della tribù. Decenni di esperienza! Lo stesso vale per l’esemplare Shanidar I, dall’Iraq. Anche lui era sulla quarantina, e in condizioni fisiche ancora peggiori: cieco dall’occhio sinistro, privo del braccio destro.

Henry fischiettò un motivetto; Mary lo riconobbe dopo qualche istante: la sigla dell’Uomo bionico. Sorrise e proseguì: — Anche di lui si era presa cura la comunità, e non tanto per carità cristiana, quanto perché una persona di quell’età era una preziosa fonte di conoscenze per la caccia.