All’interno c’erano una ventina di contenitori, di varie dimensioni. Su alcuni comparivano etichette stampate al computer; altri avevano solo una striscia di nastro per mascherature, con parole scritte a pennarello. Mary non vide i propri campioni; dovevano essere finiti verso il fondo. Cominciò a spostare i contenitori, togliendo i due più grossi (“Pelle di mammut siberiano” e “Materia placentale Inuit”) e li posò sul bancone per poter guardare meglio.
Le accelerò il battito cardiaco.
Frugò di nuovo tra i contenitori, quasi per scaramanzia.
Ma non c’era possibilità di sbagliarsi.
I due campioni con l’etichetta “Vaughan-666”, quelli con le prove fisiche dello stupro, erano spariti.
27
— Daria! — gridò Mary.
Ponter le si accostò con aria interrogativa. Mary però lo ignorò e ripeté ad alta voce il nome della dottoranda.
Lei si precipitò. — Cos’è successo? — chiese, in un tono nervoso che sottintendeva: “Cos’altro ho combinato, ora?”.
Mary fece un passo indietro, in modo che Daria potesse scrutare all’interno del frigo, e puntò un indice accusatore in quella direzione. — Tenevo due campioni, lì dentro. Che fine hanno fatto?
Daria scosse la testa. — Io non ho preso niente. Non ho neppure più aperto il frigo, da quando lei è partita per Rochester.
— Sei sicura? — chiese Mary, tentando di non tradire il panico. — Due contenitori opachi, entrambi con un’etichetta scritta in rosso con la data del 2 agosto… — una data che non avrebbe mai dimenticato — e le parole “Vaughan-666”.
— Ah sì — rispose Daria — li ho notati una volta, mentre stavo lavorando su Ramesse. Ma non li ho toccati.
— Sicura?
— Ma certo! Che cosa contenevano?
Mary ignorò la domanda, e chiese, anche se già lo sapeva: — Chi ha accesso a questo frigo?
— Oltre a me — disse Daria — Graham e gli altri dottorandi, il corpo docente e la professoressa Remtulla. E il personale delle pulizie, immagino… chiunque abbia la chiave del laboratorio.
Il personale delle pulizie! Mary aveva notato uno di loro nel corridoio del piano terra, poco prima del…
Poco prima di venire assalita.
“Come ho fatto a essere così stupida!” Non occorreva una laurea in Genetica per capire che un contenitore con il nome della vittima, il numero della Bestia dell’Apocalisse e la data della violenza, era la prova da togliere di mezzo.
— Tutto bene? — domandò Daria. — C’era del materiale relativo alle colombe migratrici?
Mary afferrò con rabbia uno dei contenitori dal frigo. — Eccola la colomba migratrice del cazzo! — Lo sbatté sul bancone.
Il traduttore di Ponter emise un bip. — Mèr… — sussurrò.
Mary inspirò profondamente, poi espirò pian piano. Tremava come una foglia.
— Professoressa Vaughan — disse Daria — glielo giuro, io non…
— Lo so — rispose Mary, sforzandosi di assumere un tono neutrale. — Lo so. — Guardò Ponter, il cui volto era la maschera della preoccupazione; poi Daria, su cui era dipinta piuttosto la paura. — Scusami, Daria. È solo che… solo che erano campioni insostituibili. — Fece spallucce, ancora infuriata con se stessa ma cercando di non darlo a vedere. — Non avrei dovuto lasciarli in bella vista.
— Che cos’erano? — domandò Daria, che non tratteneva più la curiosità.
— Niente — disse Mary, scuotendo la testa e avviandosi all’uscita senza neppure controllare se Ponter la stesse seguendo. — No, niente. Niente.
Ponter la raggiunse in corridoio. Le posò una mano sulla spalla. — Mèr…
Mary si fermò. Chiuse gli occhi per qualche istante. — Ti racconterò tutto. Ma non qui.
— Allora andiamocene — disse Ponter.
Ridiscesero la scalinata. Lungo il tragitto incrociarono un addetto alle pulizie in tuta blu, che saliva i gradini a due a due. A Mary sembrò che il cuore fosse sul punto di esplodere. Ma no, no, era Franco, un italiano; lo conosceva bene. E aveva gli occhi scuri.
— Caspita, la professoressa Vaughan! — disse. — Pensavo che sarebbe stata via per tutto l’anno.
— Sono solo di passaggio — rispose lei, cercando di assumere un tono normale.
— Bene. Buon giro, allora! — Franco li superò, salendo.
Mary espirò rumorosamente e proseguì. All’uscita dall’edificio, con Ponter che la seguiva, si diresse verso la macchina ma stavolta fece una lunga deviazione per evitare il punto maledetto. Infine, sbucarono nel parcheggio.
Salirono in macchina. Un forno. Mary d’estate di solito lasciava leggermente aperti i finestrini (ed era ancora estate: l’autunno sarebbe ufficialmente arrivato il 21 settembre) ma stavolta se n’era dimenticata, presa da troppi pensieri all’idea di rimettere piede alla York University.
Ponter non sopportava il caldo, e fu immediatamente in un bagno di sudore. Mary inserì la chiavetta di accensione, abbassò i finestrini e azionò l’aria condizionata al massimo. Ci volle un minuto, però, prima che iniziasse a soffiare aria fredda.
Mentre erano fermi in macchina nel parcheggio, a motore acceso, Ponter disse semplicemente: — Allora?
Mary richiuse i finestrini, per paura che qualcuno di passaggio potesse sentirla. — Ricordi che sono stata violentata — disse.
Ponter annuì, le sfiorò un braccio.
— Non ho sporto denuncia — continuò lei.
— Senza Companion né archivi degli alibi, temo che sarebbe servito a poco — disse Ponter. — Mi hai detto che molti crimini rimangono impuniti.
— Sì, ma… — Le si incrinò la voce. Allora tacque, finché non ebbe riguadagnato un po’ di calma. — Ma non avevo pensato alle conseguenze. È stata violentata un’altra donna, proprio qui, la settimana scorsa. Vicino all’edificio in cui siamo entrati.
Ponter spalancò gli occhi nelle orbite profonde. — E pensi che sia stato lo stesso uomo?
— Non c’è modo di saperlo con certezza, ma…
Non occorreva che lei terminasse la frase; Ponter capì. Se lei avesse sporto denuncia, forse l’aggressore sarebbe stato arrestato prima di avere l’occasione di ripetere quell’atto abominevole.
— Non potevi prevedere questi sviluppi — disse Ponter.
— Sì che potevo! — scattò lei.
— Conosci l’altra vittima?
— No, l’informazione è tenuta riservata. Perché?
— Devi liberarti da questa sofferenza… E l’unico modo è attraverso il perdono di lei.
Mary si irrigidì. — Non riuscirei mai a guardarla dritta negli occhi, chiunque sia. Dopo quello che è accaduto per causa mia…
— Non è stata colpa tua.
— Adesso volevo fare la cosa giusta — disse Mary. — È per questo che sono passata di qui. Volevo recuperare la prova della violenza, e darla alla polizia.
— I campioni contenuti nei contenitori scomparsi?
Mary annuì. La temperatura stava diventando glaciale, ma lei non toccò i comandi. Meritava di soffrire.
Mary rimase in silenzio per un po’, e Ponter disse: — Se non puoi contattare l’altra vittima per chiederle perdono, allora devi perdonarti da sola.
Mary ci pensò un momento. Poi, senza dire nulla, uscì in retromarcia dallo spazio in cui aveva parcheggiato. — Dove stiamo andando? — chiese Ponter. — A casa tua?
— Non proprio — rispose lei, e si diresse verso l’uscita.
Mary entrò nel confessionale di legno, si inginocchiò e si fece il segno della croce. La finestrella tra lei e il sacerdote si aprì; attraverso la griglia, Mary riconobbe il profilo aquilino di padre Caldicott.